domenica 28 giugno 2020

C’era una volta il mare

di Filomena Baratto 

Soltanto il mare gli brontolava la solita storia lì sotto, in mezzo ai faraglioni, perché il mare non ha paese nemmeno lui, ed è di tutti quelli che lo stanno ad ascoltare, di qua e di là dove nasce e muore il sole, anzi ad Aci Trezza ha un modo tutto suo di brontolare, e si riconosce subito al gorgogliare che fa tra gli scogli, nei quali si rompe, e par la voce di un amico”.
E’ quanto scrive Giovanni Verga nel suo romanzo I Malavoglia del 1881. Il mare è di tutti, si legge tra le righe. Non puoi dare cittadinanza al mare, anche se esistono le acque territoriali, anche se abbiamo messo paletti qua e là e usiamo dire acque di questo o quel paese. Il mare è di tutti, come l’aria che respiriamo. Ma cosa ne abbiamo fatto? Inquinato e inaccessibile. Andare in spiaggia non è privilegio di pochi, ma un diritto di tutti. Quel posticino che tanto amiamo, in riva al mare, sulla battigia, tra acqua e terra, è un bisogno e non una concessione. Stiamo perdendo di vista il concetto di libertà e di democrazia, di diritto e di dovere. Il virus sembra sia venuto a confonderci e a ribaltare concetti fondamentali. Tutte le belle parole non riescono a contrastare l’interesse. Dopo il virus, le spiagge si sono assottigliate, quelle libere rimpicciolite e manca lo spazio necessario per tutti.
 
Era un’offesa prima vedere al largo barche ormeggiate in rada mentre a due passi, a riva, intere famiglie si accalcavano per contendersi un posticino al sole; ed è un’offesa oggi vedere che i panfili sono aumentati e le famiglie a mare diminuite. Il divario è sempre esistito, con una piccola differenza: chi aveva il mare continua ad averlo, mentre gli altri lo devono condividere a dure condizioni. E se prima sulle spiagge c’era disordine, oggi ce n’è ancora di più con le severe disposizioni di distanziamento. Per permettere di andare a mare a tutti a causa del distanziamento, si dovrebbe scendere in spiaggia a giorni alterni, forse due volte a settimana. E’ difficile adeguarsi a regole restrittive per pubblico e gestori e si finisce per mercanteggiare il metro in più o meno, il residente e il forestiero, il plexiglass o la recinzione, a dimostrazione che tirando da una parte e dall’altra si resta tutti scontenti. E in un momento di confusione come questo, c’è chi ne approfitta. Gli ingredienti a demotivare di non andare a mare, oltre che a spaventare, ci sono tutti: la paura, la crisi, la depressione. E se il distanziamento è norma, bisogna assicurare a tutti la discesa a mare. La spiaggia libera non è un residuo di costa su cui mettere chi non va alla privata, ma un tratto fruibile da tutti. Questa serie di conflitti in cui inciampiamo, confonde e intristisce. Una volta si andava in spiaggia a respirare l’aria ricca di iodio, stendere il telo, un pezzetto di mondo solo nostro, portare i bambini a giocare, indorarli di sole per non fargli prendere la bronchite, per il bisogno di sentire il mormorio del mare, lo sciacquettio sul bagnasciuga, per incontrare gli amici, abbronzarsi. Oggi il distanziamento, le precauzioni, i costi, il cemento, i divieti, la maleducazione, l’incompetenza, l’arroganza, il menefreghismo, l’incapacità hanno reso le spiagge un miraggio. I bambini di oggi potranno mai raccontare delle loro giornate a mare come noi un tempo, quando la spiaggia era un luogo da vivere e non un posto riservato a pochi? Potranno mai raccontare le ore in acqua a giocare a palla o con i secchielli a riva, il sonnellino, il gelato? E questo non sicuramente per il virus ma per le interminabili burocrazie che cambiano ogni giorno, per capire che oggi condividere la vita non è più una scelta ma un dovere. Il virus ci ha fatto comprendere che dobbiamo cominciare a spezzare le nostre certezze, che la vita è fragile e basta un niente per mandarci in tilt. E mentre impariamo ad affrontarla, non dovremmo farci del male, ma essere pazienti e creare possibilità per tutti. Il nuovo concetto di libertà non ci vuole ancorati ai nostri egoismi, ci chiede di non ledere i diritti degli altri, caso mai ce ne fossimo dimenticati, di imparare a condividere e osservare regole uguali per tutti. Se Verga vedesse quello che abbiamo fatto del mare, crederebbe I Malavoglia ricchi anche nella loro sventura. Una famiglia che di quella distesa d’acqua imprevedibile ci viveva, la stessa che fa morire alcuni membri della famiglia, sconvolgendo le loro vite. Se il Verga potesse vedere il cemento iniettato sulle rive, allora inorridirebbe. E l’errore che si continua a perpetrare è quello di impossessarsi sempre più delle spiagge, di renderle sottili scorci di costa, estremi lembi di ciottoli e scogli. Il virus si è trasformato in un orco venuto a rovistare nelle nostre vite. E’ anche vero che ciò che prima non era ben gestito, oggi è diventato impossibile con le nuove disposizioni. Ma il mare sa aspettare e chissà che in una furia futura, con i suoi rigurgiti, non si riprenda quello che non abbiamo saputo gestire, ma solo offeso e sfruttato, ricordando all’uomo che nulla gli appartiene.

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