Marina di Vico |
Vico Equense - Cara Mariella, ti ricordi quando ci incontravamo tutte le mattine nell’atrio della scuola con un saluto e un sorriso? Mai scambiato parole che andassero oltre i convenevoli tra persone che iniziano la loro giornata lavorativa. All’inizio, quando qualche collega faceva il tuo nome, stentavo a collegarlo al tuo volto. Tranquilla, dolce, gentile e soprattutto educata, mostrando rispetto per il prossimo in ogni occasione, cosa alquanto rara oggi. In seguito, pur facendo parte dello stesso Istituto, ci siamo perse di vista. Poi cominciammo a vederci nel tempo che precedeva il Collegio dei Docenti e accadeva per il semplice fatto che eravamo tra le prime ad arrivare. E anche lì ci si sorrideva come se fossimo amiche di vecchia data. Per tanti anni abbiamo continuato con questi incontri. Poi un giorno, appena arrivate nell’Aula per il consueto Collegio, ti sei avvicinata con un mio libro per fartelo autografare. In una mano avevi un mio romanzo e nell’altra la penna. In quell’occasione mi confidasti di aver letto i miei libri e i miei scritti sul Blog. La lettura ti aiutava a non sentirti sola. Non cambiò nulla dopo quella volta. Soliti saluti, sorrisi, incontri scolastici. Forse qualcosa, sì. Cambiò che ogni volta, prima del Collegio, venivi verso di me e mi raccontavi un po’ di te, l’evolversi della malattia, le tue giornate, i pensieri, i desideri, le priorità. Mi raccontavi dei tuoi piccoli alunni, di quanto fossero importanti per te e come ti impegnassero.
“Se non ci fosse stata la scuola – mi dicesti un giorno – non ce l’avrei fatta!”. Il tuo volto esprimeva gioia, con un sorriso sempre pronto, capace di dare forza pur essendo tu ad averne bisogno. Nei nostri incontri preferivi parlare di me e dalle parole che usavi capivo anche quello che volevi dirmi di te e che invece mi evitavi. Mi raccontavi fatti del mio passato, facevi considerazioni, ricordavi eventi della mia famiglia. Mi parlavi della scuola, dei rapporti col prossimo, del tempo che era volato via velocemente, dell’importanza di non avvilirsi, ma vivere. Mi facevi sentire una nullità, non perché mi umiliassi, anzi! Tu col suo turbante per nascondere gli effetti della chemio, la stanchezza, l’affanno, la speranza che leggevo nei tuoi occhi, parlavi invece di me, di quello che riscontravi nei miei scritti e che spesso facevi tuo. Quando non ti vedevo, andavo in apprensione, preoccupata per l’evolversi della malattia, ma poi, quando ritornavi, sembrava venissi da una vacanza: sorridente, sempre gioiosa, con tante cose da raccontarmi. L'ultima volta che ci siamo viste ti promisi che sarei venuta a farti visita. Non l’ho fatto, perché non ho avuto il coraggio. Questa malattia, che ho conosciuto molto da vicino, la vivo come se fosse mia e una volta c’è scappata una lunga depressione da cui mi sono ripresa a fatica. Ho capito il valore della speranza, quello di credere ardentemente nelle cose. E la verità è che penso che non abbiamo mai abbastanza speranza per far accadere quello che ci auguriamo. Quando è successo a mia madre, mi chiedevo il motivo per cui non pregassi per un miracolo. L’ho capito col tempo. Ci sono malattie che annientano i malati e quelli che li assistono. Li demotivano, li avviliscono, perdendo ogni supporto interiore, anche quello più semplice di pregare o sperare con tutte le forze che possa farcela. Non riusciamo a farci carico dell’altro e di conseguenza aspettiamo che qualcosa succeda. Come se l’attesa non fosse quella di perdere la persona cara, ma quella di mollare tutto nelle mani di Dio. Come se sapesse da solo cosa fare e cosa volere, annientando completamente la nostra volontà. C’è sempre in questi casi una rassegnazione più in chi vive accanto che in chi combatte la malattia. Ho capito che tutti questi attori cui deleghiamo di fare qualcosa, non valgono quanto il nostro volere con tutte le nostre forze che la vita di quella persona ci sia più cara della nostra. E così non ho rimandato. E’ come se avessi temuto, al tuo cospetto, una domanda terribile: “Perché proprio a me?” Il più bel ricordo di te risale a qualche anno fa. Erano le 7.40 di mattina ed io scendevo dall’auto nel parcheggio della scuola. Un’auto a velocità sostenuta giunse frenando bruscamente appena in tempo dietro di me. Tu scendesti dall’auto, mentre la collega alla guida parcheggiava. Mi venisti incontro correndo. Avevi fretta, dovevi trovarti a scuola per le 8:00. Essendoci incontrate sempre e solo durante i collegi, vederti lì fu strano per me. Ti avvicinasti e mi dicesti che volevi farmi un dono, qualcosa di particolare e mi porgesti gli occhi di Santa Lucia. Devo dire che mi fecero un po’ impressione, ma nel farlo mi raccontasti la storia della Santa e alla fine mi spiegasti: “Sai perché ti dono questi occhi? Perché devono vegliare su di te, sempre. Stai tranquilla, da questo momento non ti lasceranno più”. Ti ringraziai, ci salutammo e scappasti. Poi, com'era entrata nel parcheggio, l’auto volò via. Rimasi con gli occhi in mano a riflettere. Quando l’altro giorno mi è giunta la notizia della tua dipartita, la prima cosa che ho fatto è stata quella di prendere in mano gli occhi di Santa Lucia, un dono così prezioso per me che non li ho mai più tolti dalla borsa. Passano di borsa in borsa e nel farlo è come se mi caricassi della tua presenza. Ogni volta che mi accingo a scrivere, penso a te che mi leggi. Ci sono incontri che comprendiamo solo dopo che hanno cambiato in noi il modo di vedere la vita. Ci lasciano una forza che prima non avevamo. Ora posso dire quanto mi abbia arricchito. E’ rimasto il profumo dei tuoi pensieri, della tua generosità, l’umiltà e la semplicità. Vederti lottare col sorriso e parlare della malattia come di un figlio discolo e del domani sempre con passione, non ricordo di averlo visto negli occhi di altre persone nelle tue stesse condizioni. “Leggerti mi ha fatto bene – mi dicesti a uno dei nostri incontri – mi hai dato forza. Ogni volta che accendo il computer e trovo un tuo scritto, mi sento bene, c’è qualcuno che mi parla”. Quello che non ero stata capace di fare io con te: darti forza. Ti parlavo come se tu fossi piena di salute, se fosse normale andare a scuola con quel magone e far finta di niente. Quando ci incontravano mi davi una carica inspiegabile e poi ero così abituata al tuo atteggiamento materno nei miei confronti, il modo di porgerti, che vederti per me era una festa. Adesso gli occhi che quel giorno corresti a portarmi, sono come fari sul mio cammino e sono sicura che il tuo sguardo continua da lassù.
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