sabato 6 febbraio 2021

Vico Equense. Antonino Miniero, la storia di un deportato

Due anni in un camp nazista. Il ricordo delle figlie: “mai una parola d’odio”. Premiato nel “Giorno della Memoria”

da Agorà 

Vico Equense - Storie bellissime e semplici di sacrificio, dignità e tenacia, riscattate dall'oblio. E’ forse proprio questa la cifra distintiva della "Giornata della Memoria”, la commemorazione riservata alle vittime dell'Olocausto, delle leggi razziali e ai deportati militari e politici italiani nella Germania nazista. Tra le vittime riconosciute di quelle atrocità ci sono diversi nostri concittadini, premiati mercoledì scorso presso l'Ufficio Territoriale del Governo, dal Prefetto di Napoli, mediante la consegna di una medaglia rilasciata dal Presidente della Repubblica. E proprio per inverare lo spirito della "Giornata della memoria” vi raccontiamo una di queste storie, in attesa di conoscerne altre. Protagonista è Antonino Miniero, originario di Sant’Agnello ma cresciuto a Massaquano, borgata collinare di Vico Equense. Allo scoppio della seconda guerra mondiale presta servizio in marina. In occasione dell'armistizio, l'8 settembre del 43, si trova a Pola, in Istria, ed è lì arrestato dai tedeschi e, poi, internato in un campo di lavoro vicino alla città di Erfurt, in Germania. Resta prigioniero per due anni. Dal 12 settembre del 1943 fino al 16 settembre del 1945, liberato dai russi. "Della prigionia e di quegli anni non parlava quasi mai - dice la dottoressa Luisa Miniero, la figlia che ha ritirato la medaglia -forse per proteggerci dalle atrocità. che aveva visto e vissuto. Quando trasmettevano in TV qualche documentario o filmato sul tema cambiava canale. E' stato sempre molto sobrio.

 

Ci ha riferito solo qualche frammento di vita vissuta da internato. Come il ricordo della doccia, nudi, tra la neve a prima mattina. La lotta per la sopravvivenza, combattuta recuperando patate nei campi. L’infezione provocata dal tifo, nascosta ai carcerieri su consiglio di un commilitone: "se glielo dici invece di portarti da un medico ti mandano nel forno crematorio". E poi il ritorno avventuroso a casa "una volta liberati, nessuno si curò del trasferimento di questi militari. Mio padre raggiunse l'Italia con mezzi di fortuna, arrampicandosi sui treni merci, camminando per centinaia di chilometri. Quando arrivò a casa, lui, alto quasi due metri, pesava 50 chili e la mamma fece fatica a riconoscerlo. Per quello che ha visto e patito non gli abbiamo sentito pronunciare mai una sola parola d'odio o di recriminazione. E’ questo il testimone ideale che ci ha consegnato. Ha avuto sei figli e ci ha educati all'etica del sacrificio e del rispetto". "Una volta tornato in paese, sulla scia della tradizione familiare ha fatto il contadino, ed è stato un grande innovatore nel settore - dice Maria Miniero, altra figlia - negli anni sessanta acquistò una delle prime motozappe in zona ed anche la macchina per tirare l'acqua dal pozzo. Gli altri contadini venivano a vedere lui che utilizzava questi strumenti come se fosse uno spettacolo. Compró, tra i primi, la radio. Appassionato di ciclismo, quando c’era il giro d'Italia ospitava tutto il caseggiato circostante per seguire le gare "ci voleva proprio questa medaglia alla memoria - conclude Luisa - lo Stato si è ricordato di papà, e di tanti altri come lui, fino ad oggi sembrava quasi che quei sacrifici avessero un valore morale solo per noi. Invece, da oggi, non è così. Questa medaglia è un tributo alla memoria ed un aiuto per tramandare ai posteri le atrocità attuate dai nazisti e il sacrificio di tanti italiani.”

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