Senza una politica condivisa né una leadership riconosciuta, senza un’idea forte da spendere nell’imminente crisi di governo, senza una strategia delle alleanze, il Pd si avvia mesto alla manifestazione di sabato a San Giovanni – la grande piazza romana dove il Pci, dal ritorno in Italia di Togliatti ai funerali di Berlinguer, chiamava a raccolta il suo popolo. La sproporzione fra l’ampiezza dei problemi e la banalità della risposta, fra la profonda crisi del progetto democratico e il richiamo rituale alla piazza è persino brutale. Per la prima volta in sedici anni s’intravvede un cambio, e il Pd non riesce a far di meglio che pagarsi un corteo. Lo slogan è inconsapevolmente ironico: “Con l’Italia che vuole cambiare”. È ironico perché l’Italia ha già cominciato a cambiare, ma senza il Pd. E salire sui tetti non basta. L’intero sistema politico italiano è cambiato: il Terzo polo è una realtà che va rapidamente consolidandosi, la sinistra radicale di Vendola è oggi più forte di quanto lo sia mai stata Rifondazione comunista, e la Lega è pronta a riguadagnare la propria autonomia. Paralizzato per tre mesi dalla sciocca trovata del “nuovo Ulivo”, che lo ha isolato nel gioco dei veti incrociati, mentre a sinistra Vendola conquistava ogni giorno nuove posizioni e al centro Casini si gestiva da solo l’uscita di Fini dal Pdl, il Partito democratico si trova oggi di fronte alla prospettiva peggiore: andare alle elezioni con Sinistra e libertà e l’Italia dei valori. Chiunque si occupi anche lontanamente di politica se che una prospettiva del genere liquiderebbe la stessa ragion d’essere del Pd e non potrebbe essere accettata da una buona fetta del suo gruppo dirigente. Gli ex popolari e il Modem, e forse non soltanto loro, sarebbero costretti a lasciare il partito. E in Italia la prospettiva di una forza riformista di governo – che ha come presupposto la netta separazione dalla sinistra antagonista e radicale – verrebbe archiviata per lungo tempo. La proposta di D’Alema (un governo di unità nazionale con il Pdl) e quella di Latorre (Vendola entri nel Pd), ancorché malamente argomentate, non sono altro che un argine alla scissione. In entrambi i casi il Pd continuerebbe la sua navigazione a vista, dissimulando al meglio l’assenza di una politica e di un’identità. Non hanno alcun respiro strategico, queste due proposte, né serie probabilità di realizzarsi, ma almeno si pongono il problema. È stupefacente che Bersani non s’accorga della situazione, o faccia finta di ignorarla. Il suo partito è sull’orlo della disintegrazione, sarebbe ora di rimboccarsi le maniche. (Frontpage.it)
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