venerdì 1 febbraio 2019

Tempo perso

di Filomena Baratto

Vico Equense - Oggi, immettendomi con l’auto in una stradina del centro, ho dovuto frenare di botto: dall’utilitaria davanti stava scendendo una donna con molta flemma. Era come vedere un film alla moviola. Ero tentata di suonare fino a quando non ho riconosciuto quel che restava della donna di una volta: una collega. Ha impiegato alcuni minuti per raggiungere il marciapiede, mentre la osservavo incredula. Mi ha colpito la sua lentezza di movimenti che si sovrapponeva alla donna energica e svelta di una volta. Il ricordo è diventato falso e irriconoscibile. Mi sentivo come nel Vegliardo di Italo Svevo che, guardando la ragazza mentre attraversava la strada davanti alla sua auto, ricordava il passato che non combaciava più con quello che vedeva. Di quel passato ogni cosa era diventata estranea. diventata un’altra. Da un anno all’altro siamo presi da un giro di boa vertiginoso, pur convinti di essere inossidabili. C’è un calo di tensione, di sogni, di forze, di proiezioni per il futuro. Il corpo si inarca, si accorcia, si curva. Gli arti regrediscono e perdono forza e la pelle perde il turgore e la luce di una volta. La mente ha bisogno di riposo anche se un tempo non era sua abitudine. La stessa stanchezza allontana il ricordo della forma smagliante di qualche anno prima. Quella collega, avvolta ora dalla lentezza, ha avuto una carriera lunga e piena. Quante pillole di saggezza dispensate, quanti consigli, quante attività insieme, quanti discorsi! Per le giovani è sempre un piacere lavorare con colleghe più anziane: sanno essere materne, protettive, sagge, affettuose. Sarà per questo che quando vanno via lasciano un vuoto. Fa male rivedere quel che resta di una donna, una madre, un’insegnante e riconoscersi già in lei, tra alcuni anni. Sarà già tanto se si arriverà alla stessa età! Dopo alcuni metri, l’anziana mi è passata davanti con la busta della spesa in mano. La teneva stretta per non lasciarsela sfuggire. Per un momento mi è parso che mi riconoscesse e così le ho sorriso. Dapprima non ha fatto caso, poi si è avvicinata al finestrino guardandomi meglio e ho rivisto il suo sorriso, il filo di rossetto, gli occhi celesti come guizzi dalle orbite e si affannava a dire di aprire la portiera. Ero così commossa che non mi uscivano le parole di bocca. Quando ci siamo strette la mano, mi ha dato un pizzicotto sulla guancia dicendomi:”Fatti dare un bacio, quanto sei bella!” Mi fa sempre un certo effetto vedere una persona anziana. Diventano di nuovo bambini, hanno quello spirito delicato e gioviale dei piccoli e sono affettuosi, mentre una volta ostentavano superbia e arroganza.
 
Lei, leggendomi nel pensiero, mi ha detto: “I vecchi devono stare con i giovani, si rinfrescano come l’erba con la rugiada. Vieni a mangiare con me, sono sola. Ti preparo qualcosa di buono. Lo so che sei brava in cucina, ma per una volta cucino io per te, vieni!” La guardavo muta, col sorriso negli occhi, preoccupata di procedere ora che il traffico era più scorrevole. Visto che mi tratteneva, ho parcheggiato alla meglio togliendomi dalla strada e sono scesa. Abbracciandola, sentivo la fragilità delle sue ossa. Lei si appoggiava a me come chi vuol depositare un peso. Cercava un calore che forse non trovava da tempo. L’ho accarezzata con la mano sul capo facendo attenzione a non farle male. Abbracciavo quella di un tempo, la collega affettuosa o un ricordo che aveva il colore di qualcosa che presto avrei acquisito anch’io? La commozione è sempre per qualcosa che perdiamo e non avremo più. “Vienimi a trovare, ti aspetto! Sono sola, ormai nessuno più vuole i vecchi. Ma mi chiedo: “I giovani, che fine hanno fatto? Te lo dico io, sono tutti fuori, all’estero. Qui non ci vuole stare più nessuno. Tra poco scappano pure i migranti. Tanti anni di lavoro per finire vecchia e sola. Ho allevato generazioni senza pensare al mio futuro che non è stato generoso con me. L’avessi saputo avrei campato meglio, quando io ero il meglio. Lo Stato ci vuole scatafasci, così può farne quello che vuole. Lasciami dire, è uno sfogo!” Continuavo a vederla quando lavoravamo fianco a fianco, allegre, con entusiasmo. Quando sarebbe andata in pensione avrebbe fatto grandi cose, ma a vederla, non si direbbe. L’ho accompagnata al cancello di casa, lì a due passi. Stava inciampando e non riusciva a trovare la chiave da inserire nella toppa. Dio mio, come si fa a mandare in giro una povera donna che ha bisogno di aiuto? Nella vita restiamo numeri: prima per lo stipendio, poi per la pensione, perdendo di vista la persona. Ci siamo lasciate con la promessa di andarle a fare visita quanto prima. Ma so che ci vuole molto coraggio per farlo, per non voler vedere quello che saremo, e che, per quanto si facciamo grandi progetti, questi sono sempre approssimativi per difetto. L’incontro ha condizionato la mia giornata. Nel vederla pensavo a mia madre, che non c’è più, a mia nonna che mi ha insegnato la pazienza e la bellezza delle persone anziane, a mio nonno che aveva un concetto tutto suo di vecchiaia: un passaggio mentre si continuano a fare sempre le stesse cose. Dove stanno i miei vecchi? Li avrei voluti tutti con me stamattina. E dove stavano i figli? Chi ha il coraggio di mandare in giro una madre che non sa nemmeno prendere le chiavi dalla borsa? E quanta forza devono metterci loro, i vecchi, per dimostrare di non aver bisogno di nessuno? Di essere quelli di una volta, autosufficienti e capaci? Nei suoi occhi ho letto la paura di non farcela ad essere autonoma. Anche io mi sono sentita in difetto, per non conoscere la realtà di una donna che mi è stata accanto tanti anni. Questa parte di vita in declino, più di ogni altra, ha bisogno di essere supportata, proprio come succede con i bambini. Mentre andavo via, mi chiedeva scusa per il tempo che mi aveva fatto perdere. Le ho spiegato che non è stato tempo perso, ma un tempo voluto, un tempo dovuto a una persona che mi chiedeva di esserci in quel momento. Quante volte pensiamo di perdere il nostro tempo, ma oggi non è stato tempo perso, ma un tempo ritrovato!

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