sabato 11 settembre 2010

Cuba, addio al socialismo: non funziona

Rideva ma non scherzava, Fidel Castro, quando tra un boccone di pesce e un sorso di vino ha risposto a un giornalista americano che era inutile domandargli se il modello economico cubano sia esportabile: «Se non funziona nemmeno a Cuba!». Per alcuni Castro è impazzito, per altri senile. Di certo è narciso e mentre la sua vita volge al termine sembra voler dire «après moi le déluge»: con me muore la mia opera. Ma altrettanto sicuramente è sincero e la sua sincerità va capita e interpretata. È vero che le parole di Castro si prestano all’ironia. Quel che ha ammesso con candore è infatti la più ovvia delle ovvietà. Che il modello economico cubano sia un vero disastro è noto ed evidente da tempo. Così come lo è che l’embargo statunitense è stato la foglia di fico dietro la quale lo stesso Castro ne ha lungo celato le immense falle. Che dire, d’altronde, di un modello dove lo Stato controlla tutto da mezzo secolo ma i suoi vertici pregano i cubani di far meno conto sullo Stato? Come non vedere che accade a Cuba quel che è accaduto in tanti altri casi analoghi, dove dopo avere distribuito tutto quel che c’era celebrando il primato dell’ideologia sull’economia, al governo non rimane che implorare i cittadini a produrre, produrre, produrre. Senza che ne abbiano l’incentivo, i mezzi, i capitali, i mercati, le infrastrutture, nulla! Il fatto però che a riconoscere il fallimento non sia per una volta il solito e sospetto docente o giornalista, bensì Castro in persona, è una bella novità. Chissà come l’avrà presa il suo amico Chávez, che a furia di scimmiottarne le gesta ha dilapidato la miniera d’oro su cui era seduto ed ora guida l’unico paese in recessione dell’America Latina. Ma cosa significa e a cosa prelude la sorprendente uscita di Castro? Forse a nulla e già domani si sarà rimangiato quel che ieri gli è scappato. O forse, come qualcuno già ipotizza, prepara il terreno a un nuovo ciclo di riforme cui in realtà il fratello Raúl sta lavorando da tempo con scarso costrutto. Salvo che stando alle amare considerazioni di Fidel, si direbbe che gli interventi omeopatici tentati finora possano ben poco per rianimare un modello fallimentare nelle sue basi. Un modello che da tempo immemore non produce ricchezza da distribuire né benessere di cui godere e cui risulta perciò difficile spiegare in nome di cosa esiga il sacrificio della libertà imposto ai cubani. Più probabile, però, è che quello di Castro sia un ex abrupto involontario, privo di secondi fini ed estraneo a calcoli politici. In tal caso, la sua ammissione e il rituale rifiuto in blocco del capitalismo parrebbero condurlo, quasi a chiudere il ciclo della sua lunga vita, alle origini da cui in fondo proviene. Al sogno classico del populismo latinoamericano di una terza via tra capitalismo e socialismo, democrazia e totalitarismo, libertà e giustizia sociale. Una terza via mille volte evocata e altrettante volte fallita, perduta o mai trovata. Una sorta di araba fenice, insomma, che tanti ancora cercano ma il cui tempo è da tempo andato. Ma se così è, quel che dice Castro fa come sempre rumore e scalda forse ancora qualche cuore, ma non per forza è rilevante. (Loris Zanatta il Mattino)

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