Vico Equense - Museo mineralogico campano |
Ultima chiamata. Suona così l’Sos lanciato da 30 tra curatori e ricercatori di altrettanti musei scientifici italiani, piccoli e grandi che sembrano inesorabilmente destinati all’abbandono, alla chiusura, alla svendita. Che suona ancor più drammatico perché a dare la sveglia sono persone che alla cura di quei musei hanno dedicato la vita, e oggi, per questo, hanno deciso di reagire senza aspettare che si muovano i brontosauri burocratici, assai più ostici, da gestire, di quelli ospitati nelle loro teche. La rivista “Zoo Keys” ha ospitato il loro cahier de doléances, ma ha anche prospettato una soluzione. Spiega il primo firmatario,Franco Andreone, del Museo Regionale di Scienze Naturali di Torino, 500 pubblicazioni scientifiche, ovvero un pedigree per il quale all’estero sarebbe probabilmente al vertice di importanti strutture nazionali: «La situazione di oggi è il risultato della storia del nostro paese, con la sua frammentazione geopolitica, ma anche della miopia di tutti coloro che sono venuti dopo l’Unità. A differenza di quanto accade altrove (quasi ovunque), da noi manca un referente unico, così come un grande museo naturalistico nazionale. Ognuno, quindi, fa storia a sé, e dipende chi dall’università, chi dalla regione, chi dal comune, chi dalla beneficienza, e quasi tutti dalla politica, che se ne disinteressa. Impossibile avere concorsi e normative omogenee, e difficilissimo avere fondi: ciascuno, in sostanza, fa ciò che crede e che può, cioè poco o niente».
E così accade che debbano sopravvivere, se ci riescono, con grande difficoltà luoghi che hanno tradizioni talvolta gloriose, centenarie, che ospitano 13 mila specie di piante e 160 mila di animali - 150 mammiferi e migliaia tra insetti - oltre a reperti vari neppure mai catalogati. Sono gioielli sparsi in tutt’Italia, grandi e celebri come il museo di Storia Naturale di Milano o quello di Torino, come piccoli e preziosi come il Museo mineralogico campano di Vico Equense che conserva migliaia di reperti geologici. I più sono in difficoltà. Colpa della crisi, certo, ma anche di un’idea assai eterodossa, rispetto al resto del mondo, di che cosa dovrebbe essere un museo scientifico. Che, chiarisce il curatore torinese: «Dovrebbe essere un santuario della ricerca e della conservazione: analizzare e mantenere in buono stato in maniera sistematica quanto c’è e quanto c’era è utilissimo, per esempio, per la pianificazione territoriale e per molti altri scopi». Questo fanno tutti i musei scientifici del mondo. Ma ormai, aggiunge lo specialista: «Nessuno di noi ha tempo per queste cose, e quando prova a farle, molto spesso lo fa a sue spese e nonostante l’ostracismo dei responsabili, che preferiscono impiegare il personale superstite nell’attività – importante, ma diversa – di guida per studenti e visitatori». Mancano le persone, quindi (l’ultimo concorso del museo di Andreone è stato il suo: anno 1991), ma poi mancano i laboratori e, soprattutto, il denaro. Come se ne esce? Secondo i 30, si deve cominciare a fare un metamuseo. Ovvero una piattaforma comune che permetta di informatizzare e uniformare i dati, per favorire lo scambio di quanto c’è, centralizzare alcuni servizi, fare cordate per reperire fondi europei di Horizon 2020 (che ci sono, ma per ottenere i quali bisogna lavorare in rete), progettare iniziative comuni, rivitalizzare la fase divulgativa. E c’è un esempio concreto: il progetto Estinzione, nato dalla collaborazione tra cinque enti museali e di ricerca (firmatari dell’appello di Zoo Keys), finanziato con fondi europei, che porterà al Muse di Trento nel luglio 2016 (e in seguito in altri musei) molti esemplari di animali estinti provenienti da diversi enti museali italiani; gli stessi saranno poi studiati dal punto di vista genetico con tecniche d’avanguardia come lo studio del Dna mitocondriale. Buona volontà, ricerca, collaborazione, immaginazione, visione: cambiare dunque, e soprattutto salvare i musei scientifici, è, o sarebbe possibile. Magari permettendo ai curatori e ai ricercatori di fare il loro lavoro, che prevede, oltre allo studio, alle partnership internazionali e alle missioni sul campo, anche il reperimento di fondi, che potrebbero dare una grossa mano economica. Aiutando le collaborazioni con le università, che all’estero forniscono studenti e dottorandi e vivacizzano la ricerca. Creando una normativa unica di riferimento. Sostenendo la nascita del metamuseo. Infine, investendo in personale e strutture che, come dimostra il clamoroso successo del Muse di Trento, quando ben gestite, sono poli di sviluppo per interi territori. L’alternativa? La chiusura o, al limite, la svendita, magari a investitori stranieri, per esempio asiatici, di intere collezioni di inestimabile valore.
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