venerdì 29 gennaio 2016
Chi crede nella famiglia non teme quella altrui
Fonte: Luigi Vicinanza da L’Espresso
Oggi come ai tempi del referendum sul divorzio,, il sentimento del Paese è più avanti del tatticismo dei partiti. E non si può avere paura della libertà Chi crede nel matrimonio non ha paura del divorzio. Lei, la sposa, è vestita rigorosamente in bianco. Lui, lo sposo, in abito scuro d'ordinanza. Sorridono felici al futuro da un enorme manifesto elettorale. E invitano a votare No all'abolizione del divorzio. Perché - è sottinteso - i nostri doveri non possono limitare i diritti di chi la pensa diversamente. Anzi, la difesa dei propri convincimenti è la maggior garanzia di tutela dei comportamenti altrui. Maggio 1974. Italia in bianco e nero. I rapporti uomo-donna stanno cambiando, faticosamente. Il maschio-padrone trova argine a uno strapotere secolare. E la stagione dei diritti civili. Del primo referendum al quale gli italiani partecipano per abrogare o confermare una legge dello Stato: quella sul divorzio, appunto. Riprodotto sulla copertina del quarto volume de "La nostra storia", la collana dedicata ai 60 anni de "l'Espresso", il poster propagandistico con la frase a effetto sul matrimonio porta la firma del Psi, il Partito socialista di Francesco De Martino e Sandro Pertini.
E di Loris Fortuna, il deputato che insieme al liberale Antonio Baslini ha dato il nome a una riforma urticante per i conformismi dell'epoca. Nell'ottobre 1972, quando il referendum viene minacciato dalla Democrazia Cristiana per cancellare una conquista realizzata appena due anni prima, Nilde lotti, influente dirigente del Pci, rilascia un'intervista al nostro settimanale: «Meglio mezzo divorzio che un refe rendum intero», il titolo che sintetizza la titubanza e la prudenza del Partito comunista di Enrico Berlinguer. Nonostante ciò, il referendum fu vinto e il divorzio salvo. E i comunisti impararono a scoprire la laicità. Non è paragonabile l'Italia di allora con quella odierna. Se non nel tatticismo spinto delle forze parlamentari. Mentre il sentimento della nazione è più avanti rispetto ai calcoli elettorali. Ecco perché la legge sulle unioni civili, da giovedì 28 gennaio all'esame del Senato, non è più rinviabile. Se le piazze si mobilitano, su fronti contrapposti, con tutta la loro carica di partecipazione e di passione, le istituzioni rappresentative non possono reagire con l'immobilismo. Sarebbe la peggior risposta al Paese. Un sottrarsi alla responsabilità di decidere. Così come evocare un referendum prima ancora che la legge approdi in aula.
MATTEO RENZI IPOTIZZAVA un percorso meno accidentato per raggiungere una riforma attesa da troppo tempo. Che ha il vantaggio, tra l'altro di essere a costo zero; senza incidere sui delicati conti pubblici. E sufficientemente di sinistra, ma non sgradita a una parte di elettorato che fu berlusconiano. L'insidia inaspettata è spuntata all'interno del Pd, tra alcuni deputati di formazione cattolica, dubbiosi innanzitutto sulla "stepchild adoption" (pessima abitudine usare l'inglese per indicare questioni complesse che meriterebbero di essere spiegate con chiarezza a tutti i cittadini). Si parla cioè della possibilità, per una coppia gay, di adottare il figlio di uno dei due. Opzione contro cui si è schierata con forza la Conferenza episcopale guidata dal cardinale Angelo Bagnasco. Eppure, rassicura il renziano direttore de "l'Unità" Erasmo D'Angelis, il disegno di legge che porta il nome della senatrice dem Monica Cirinnà è da considerarsi moderato nei contenuti rispetto alle leggi di altri paesi europei, «un buon compromesso tra posizioni più avanzate e quelle più tradizionaliste».
E GIÀ, PERCHÉ L'ITALIA rispetto agli altri grandi partner europei, è maledettamente indietro nel campo dei diritti civili. Non solo per quel che riguarda le coppie omo, ma anche per le coppie etero non sposate. Un vuoto legislativo provocato dalla cattiva politica degli ultimi vent'anni, indifferente alle spinte sociali e alle evoluzioni del comune sentire. Ecco: pur nel rispetto delle sensibilità di ciascuno, vien voglia di parafrasare quel fortunato manifesto elettorale di 42 anni fa, per sostenere che chi crede nella famiglia non ha paura della famiglia altrui. Non si può aver paura dell'ampliamento dell'area dei diritti individuali e collettivi, accompagnati da nuovi insoliti doveri maturati all'interno di famiglie arcobaleno. Non si può aver paura della libertà.
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