La vergogna del killer che diventa social
Fonte: Alessandro Perissinotto da Il Mattino
Ci sono solo 8 miglia tra il 635 est della 93a Strada, a Cleveland, Ohio, e il 2207 di Seymour Street, sempre a Cleveland, ma quelle 8 miglia sembrano separare due lontanissimi universi di follia criminale. Al primo indirizzo, Steve Stephens, afroamericano 37enne, ha scelto una persona a caso e le ha sparato un colpo alla testa riprendendo l'omicidio con un telefonino e postando il tutto su Facebook. Dall'altra parte, nella casa (oggi demolita) di Seymour Strett, Ariel Castro ha sequestrato tre ragazze dal 2003 al 2013. A unire i due luoghi, oltre a un tratto della «Interstate 90», è il filo rosso della violenza gratuita, della sopraffazione immotivata; a dividerli è invece l'opposizione tra nascondimento ed esposizione globale. Se Ariel Castro ha potuto continuare per un decennio la detenzione e lo stupro delle sue vittime, è stato grazie al nascondimento, alla mimetizzazione: le tende della casa erano sempre abbassate, le luci spente, nessuno doveva accorgersi che lì dentro si stava consumando una tragedia. Al contrario, il nuovo killer di Cleveland ha scelto di dare al suo crimine una visibilità totale, ha fermato per la strada un uomo di 74 anni scelto a caso e gli ha ordinato di pronunciare, davanti all'obiettivo dello smartphone, un nome di donna: Joy Lane.
«È lei la causa di tutto quello che accadrà» ha aggiunto l'assassino, poi ha sparato e ha reso «social» il suo delitto. Chi è Joy Lane? La ex-fidanzata di Steve Stephens, la donna che ha avuto la colpa o il coraggio di abbandonarlo: è per domare questo dolore che Stephens ha ucciso; è per lei che, stando alla sua folle confessione social, ha sparato ad altre 15 persone nel giorno di Pasqua (ma di queste vittime la polizia sembra non essere al corrente); è per Joy che forse ucciderà di nuovo, dal momento che è armato, pericoloso e in fuga. Ma è davvero Joy la causa di tutto? Davvero una rottura sentimentale può trasformare un uomo in un mostro? Sappiamo che, in una sua deriva malata, l'amore può far commettere le peggiori atrocità, ma qui c'è qualcosa di più; tra gli ingredienti che hanno composto la tragedia di Cleveland ce n'è uno che, in futuro, avrà sempre più importanza: l'inebriante sensazione di onnipotenza che viene dalla possibilità di essere visto in diretta (o quasi) da miliardi di persone. E allora non importa chi uccidi, non importa perché lo fai, importa solo il fatto che quell'omicidio, per un'ora o un giorno, porta la tua faccia e la tua voce sugli schermi di tutti; conta che, mentre tu ammazzi, riprendi e posti, gli smartphone di milioni di persone vibreranno, avvertiti da Messenger, da Twitter, o da qualche altro sistema di allerta sulla cronaca, che qualcosa di unico sta avvenendo da qualche parte nel mondo. E dire che, all'inizio degli anni '90, Tim Bemers-Lee e Robert Cailliau, mentre mettevano a punto il protocollo per il World Wide Web, pensavano a uno strumento che avrebbe favorito lo scambio di informazioni scientifiche e la nascita di quella che, nel 1994, il filosofo Pierre Levy avrebbe definito «intelligenza collettiva»! Cosa resta di quell'intelligenza web nell'epoca dei social network? E se, con Facebook e i suoi fratelli, la rete fosse diventata invece il luogo privilegiato della follia collettiva? Se fosse diventata non solo il palcoscenico ideale per la psicopatologia criminale, ma addirittura l'ispiratrice del gesto assassino? Andy Warhol diceva che, in futuro, ognuno avrebbe avuto diritto a 15 minuti di notorietà, ma non specificava quali sarebbero state le ragioni di questa notorietà: oggi i social ci stanno dimostrando che non è l'intelligenza a rendere famosi in internet; i video virali ci dicono che non è chi suona Brahms ad avere milioni di visualizzazioni, ma chi si esibisce in tuffi nel fango e nella produzione di flatulenze (i video con i gattini sono un discorso a parte). E in questa rincorsa al peggio (giacché il meglio è difficile e non da fama), ci stanno le persone come Steve Stephens, ci stanno tutu i frustrati, i folli, i criminali: il vecchio detto secondo il quale «il crimine non paga» non è mai stato vero, e meno che mai lo è ora. Nell'epoca dei social, il crimine paga m termini di «Like», di visualizzazioni, dire-tweet; paga con una moneta inflazionata, che ha valore solo per i gestori di pubblicità e per i padroni dei big data (Google in testa), ma che sembra attirare più di ogni altra cosa. Non so se quello di Cleveland sia il primo social-omicidio (probabilmente no), ma di sicuro ci sono stati social-stupri, social-aggressioni, social-violenze sugli animali; quello di ieri non è che il social-crimine del giorno e domani sarà cancellato da altre efferatezze trasmesse via web, da qualcun altro che vorrà mettere alla gogna una ex-fidanzata, un disabile o una persona qualunque. Facebook ha definito l'omicidio di Cleveland «un crimine orribile» e ha affermato che «questo tipo di contenuti non sono tollerati su Facebook». Ci mancherebbe anche che dicesse il contrario! Ma la realtà è ben diversa: Facebook e gli altri social sono nati proprio per tollerare qualunque cosa (a meno che tu non cerchi di pubblicare la scena di un film di una major americana, nel qual caso vieni «bannato» nel giro di pochi secondi dagli algoritmi di riconoscimento automatico), prosperano proprio perché privi di qualsiasi filtro preventivo. Certo, dopo, i contenuti possono essere rimossi, ma tra il momento della pubblicazione e quello della rimozione possono passare ore, giorni o settimane ed è su quelle ore, giorni o settimane che fa affidamento la follia dei social-killer. Non basta rimuovere a posteriori, occorre ripensare completamente il sistema dei social prima che diventino delle bombe atomiche nelle mani di tutti gli squilibrati del mondo.
Nessun commento:
Posta un commento