Fonte: Isaia Sales da Il Mattino
Se ho fatto bene i conti, sono 17 le famiglie politiche campane che hanno candidato (o cercato di candidare) un loro membro alle prossime elezioni. Tre non sono andate in porto all'ultimo minuto, in due casi si e verificata la sostituzione del figlio con la madre o con il padre, e in altri due casi del marito con la moglie. Coinvolti tutti i partiti e le coalizioni, con una preferenza del centrodestra per le mogli e del centro sinistra per figli e nipoti (compreso il movimento di Grasso). La tendenza a candidare parenti dei potenti si era già ampiamente manifestata nelle elezioni regionali del 2015, ma adesso si e arrivati a cifre impressionanti. La Campania è al primo posto in questa speciale classifica. Una particolarità che merita una valutazione al di là del folklore, al di là dei giudizi morali, provando prima di tutto a spezzare la coltre di indifferenza o tolleranza che ha accompagnato in Campania il formarsi di liste a macroscopica presenza di ereditieri. A quale stadio della politica corrisponde questa compulsiva voglia di candidare figli, nipoti, mogli, fratelli e sorelle? Se la presenza di tante mogli in lista è un prodotto degenerato della norma sulle pari opportunità che obbliga ad alternare una donna per ogni uomo candidato nei listini, garantendone così una sicura elezione, meno semplice è spiegare la presenza di tanti figli.
Escludendo il contemporaneo sbocciare di geni della politica nelle famiglie dei maggiorenti, che avrebbe potuto porre il dilemma lacerante se privarci o meno (per troppi scrupoli) di formidabili talenti, le spiegazioni debbono essere altre. Forse l’ andazzo si adatta semplicemente a questa fase politica e a questo sistema elettorale che ha sbriciolato ogni criterio di selezione meritocratica della rappresentanza, riducendo quel che restava dei partiti a semplici emanazioni delle decisioni del centro e dei potentati locali. I partiti non sono più da tempo strumenti di selezione della propria classe dirigente, questo potere si è spostato fuori, e le famiglie assieme ad altre lobby hanno provato ad occupare lo spazio che si è aperto. Con arroganza. Con prepotenza. Ma anche con astuzia. Perché l'arroganza e la prepotenza si presentano spavalde sia nei momenti alti del ciclo di potere sia nella fase di declino. E questa è indubbiamente una fase di declino, sia dei partiti per come li abbiamo conosciuti nel corso del Novecento sia delle stesse famiglie dei potenti, che reagiscono all'evidenza dell'età e dell'inevitabile fine del loro ciclo prendendo quello che possono. Sì, in tutto ciò c'è anche l'astuzia predatoria di cogliere ogni spiraglio che si apre nella catena lacerata del comando politico. Rispetto alle tradizionali forme di selezione della rappresentanza, negli ultimi anni (e oggi in maniera patologica) si sono manifestate due nuove modalità. La prima risponde a un'idea della politica come «impresa di ventura». Un giovane dotato di grandi ambizioni e di scarsi mezzi, che al tempo di Stendhal poteva scegliere tra «Il rosso e il nero» (cioè la carriera ecclesiastica o quella militare) può accodarsi a quelle reti di interessi e di poteri che oggi condizionano la politica locale e puntare immediatamente al Parlamento, perché questa è l'epoca della massima facilitazione di accesso agli incarichi pubblici. Insomma la politica come «posto» da occupare, altrimenti non si spiegherebbe questa ossessione dei curricula, per cui un candidato è valido o meno se ha un curriculum spendibile come se (appunto) si concorresse ad un posto di lavoro. La seconda risponde ad un condizionamento forte del mezzo televisivo nella scelta della rappresentanza, che spinge i partiti e i movimenti a privilegiare come qualità politiche la parlantina e la telegenicità, cioè a promuovere candidati ciarlieri, capaci di farsi valere in una «appiccicata», di dire la loro su ogni argomento con sottile sprezzo dell'approfondimento e della specializzazione. Tutto ciò crea una insostenibile leggerezza e improvvisazione della rappresentanza di cui non c’è paragone con il passato. In un movimento bastano 57 indicazioni per essere candidati! In questo quadro, per molti si è posta la seguente domanda: perché io no, se ce l'hanno fatta persone del genere a finire in Parlamento? E soprattutto: perché mio figlio no, se questo è il livello? Insomma si tratta di un familismo fortemente consapevole della mediocre classe dirigente che si e contribuiti a costruire. L'abbassamento della qualità politica ha reso le famiglie più audaci nel proporre i propri rampolli. Alcuni commentatori hanno semplificato il tutto utilizzando la categoria interpretativa del familismo amorale. Ma quando Banfield in Basilicata inventò tale teoria, si riferiva ad un mondo contadino povero e spaventato da clima e dalle malattie. In una tale precarietà di vita, i rapporti familiari rappresentavano l'unica difesa in caso di disgrazie, di cattive annate, o di bisogno di un prestito, non un mezzo di mantenimento o di accrescimento di potere. I veri familistì erano gli aristocratici e i possidenti che utilizzavano la famiglia come supporto ai propri privilegi. Per questo motivo si può parlare oggi di un particolare familismo dell'aristocrazia politica locale. Non voglio certo eludere la domanda che molti si pongono: quando la scelta di un familiare in un incarico politico-amministrativo assume i caratteri di legittimità? Solo quando il prescelto non riceve un vantaggio dal potere del proprio parente. In questo senso si deve fare una distinzione con i figli di politici che non sono più potenti. E anche se, questo caso, i figli possono avvalersi delle relazioni che il genitore ha accumulato nel corso della sua carriera, non si può parlare di una completa lesione della libera competizione con altri giovani di uguale talento e passione. Lesione della meritocrazia che si verifica nel caso di un parente ancora in piena attività, perché in tal caso si utilizza il potere di influenza derivante dal ruolo pubblico svolto dal familiare. Solo Bossi lo aveva fatto prima. È anche vero che negli ultimi anni, con il diminuire delle opportunità lavorative, molti professionisti hanno associato i figli nella loro attività, facendo ricorso al proprio patrimonio privato di conoscenze e di clientela per aiutarli. Si tratta certo di una «sistemazione avvantaggiata» che stride con i principi meritocratici, che però non si ottiene con risorse pubbliche. Poi c'è lo sport, un campo in cui molti figli di grandi atleti hanno intrapreso la strada dei padri. Ma in questo settore il vantaggio del nome non può superare certi limiti fisici naturali. I figli di Maldini e di Mazzola sono diventati grandi calciatori, ma ciò non è stato possibile al figlio di Gheddafi. La differenza della politica con lo sport consiste nel fatto che a giudicare se un figlio è bravo è l'assoluta discrezionalità del genitore, e ad avallarla sono dirigenti di partito con cui è alleato.

Nessun commento:
Posta un commento