Fonte: Antonio Fiore da Il Corriere del Mezzogiorno
I nostalgici di Franceschiello, scandalizzati dalla furba decisione dei supermercati milanesi Esselunga di mettere sul mercato una pseudo-pastiera «made in Parma» e dunque priva degli obbligatori crismi di napoletanità, hanno immediatamente spedito alla direzione dell'azienda di Limito di Pioltello una versione originale del celebre dolce pasquale realizzata a regola d'arte da un bravo artigiano «made in Naples». A Pasqua assaggiate questa (velocità delle Poste permettendo) e poi ci dite, sembra ammonire il messaggio sanfedista sotteso alla provocazione politico-gastronomica dei leoni da pastiera: particolarmente motivata dal fatto che la pastiera medesima riveste fondamentale rilievo nell'immaginario borbonico. Leggenda vuole, infatti, che proprio assaggiando una fetta di quel prelibato dolce Maria Teresa d'Asburgo-Teschen, seconda moglie di Ferdinando II nota come «la Regina che non sorride mai», atteggiò per la prima volta l'augusta bocca a un sorriso compiaciuto. Al che Ferdinando, sovrano buontempone: «E che marina! / Pe' fa' ridere a te, ce vo' a pastiera?/ Moglie mia, viene acca, damme 'n abbraccio!», ordinando al cuoco che «a partir d'adesso, / 'sta pastiera la faccia un po' più spesso». Non è però necessario essere aspiranti sudditi delle Due Sicilie o seguaci della Santa Fede per riconoscere che la pastiera parmigiana costituisca un attentato a una delle eccellenze culinarie partenopee, un crimine culturale la cui gravita va situata a metà strada tra la pizza all'ananas e gli struffoli al forno. Per attestarlo non c'è bisogno dell'assaggio, basta la lettura dell'etichetta: dove non contano tanto le presenze (crema di ricotta, grano cotto, zucchero, latte, tuorlo d'uova, farina di frumento, eccetera) quanto l'assenza. Anzi, l'assenza dell'essenza.
Non vedo traccia, infatti, di un ingrediente apparentemente secondario ma in grado di fare della pastiera quel profumatissimo e inimitabile sospiro che a ogni Pasqua ci sussurra che la primavera è alle porte: niente inebriante acqua di millefiori, insomma, sostituita da un generico «Aromi» (per i puristi mancherebbe anche un mezzo cucchiaino di cannella. E le strisce di pastafrolla a croce greca, che nella pastiera napoletana devono sempre essere quattro in un senso e tre nell'altro a simulare i tre Decumani e i quattro Cardini della planimetria di Neapolis, nella versione Esselunga risultano essere otto: ma a Limito di Pioltello che ne sanno della Sirena Parthenope?). La pastiera-non pastiera potrà comunque risultare gradita ai globalizzati palati post-moderni, però è giusto segnalare che si tratta di un'appropriazione indebita resa possibile dalla travolgente popolarità di certe nostre geniali invenzioni e, per converso, dallo scarso impegno delle istituzioni campane nella loro difesa. E proprio per denunciare questa latitanza ecco scattare la seconda parte della provocazione neoborbonica: i cui leader hanno spedito una seconda pastiera - ma stavolta quella farlocca made in Parma - al presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca onde sollecitare il governatore «a una pronta e efficace azione per la tutela delle produzioni tradizionali (dalla pastiera alla sfogliatella, dalla mozzarella alla pizza) così come già realizzato per altri prodotti (anche meno pregiati e meno famosi) in altre regioni (dal grana al parmigiano, dai vini alle polente)...». Italiano scazonte e spericolato a parte, possiamo ampiamente concordare sui concetti. Anzi, siamo certi che, tramontato da un pezzo il patto della crostata stile Seconda Repubblica, i tempi siano ormai maturi per un salvinian-dimaian-deluchiano patto della pastiera.
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