domenica 4 febbraio 2018

Camorra mentis

di Filomena Baratto 

Vico Equense - Il popolo napoletano abituato a trovarsi in problemi da risolvere, adotta come metodo per risollevarsi l’unico modo possibile che è quello di riderci su, e ridendo prende le distanze, riescendo a delimitarne i confini, a porre domande e a trarne conclusioni. Non significa non prenderne atto, ma affrontare le cose diversamente. L’ironia è un espediente per smorzare la tragicità e lasciare emergere la nuda realtà. Così l’umorismo aiuta a vederci chiaro per essere, come diceva Pirandello, il sentimento del contrario: ridiamo per cose completamente opposte alla realtà. Ed è quella realtà contraria che produce in noi ilarità. Giordano Bruno, nel Candelaio, diceva che: “In tristitia hilaris, in hilaritate tristis”. La stessa sorte tocca a Napoli, città dalla bellezza mozzafiato, ma nei suoi meandri più nascosti sorge il male più impensabile. I napoletani non amano i cambiamenti, le novità”. In tutta la storia, la rivoluzione a Napoli è arrivata due volte, nel 1647 con Masaniello e nel 1799 con Eleonora Pimentel Fonseca. Entrambi furono uccisi, segno che nulla potrà cambiare, che Napoli ha una “logica lineare” e non vuole forzature. Il napoletano non ama interferenze nella sua vita. L’ironia fa parte dei napoletani, di questa terra e affonda le radici nell’atellana, che risale al 240 a.C, commedia dai toni farseschi, basata sull’improvvisazione e l’uso di maschere fisse.
 
I napoletani ammortizzano la tragicità della vita con il sorriso, la leggerezza, l’evanescenza pensando che la giornata abbia un suo valore completo da vivere a pieno. Tra i fatti più tragici c’è la camorra. Il camorrista sposa in pieno questa filosofia, uno stile di vita fatto di imprevedibilità e fatalità, di continue paure e preoccupazioni. Il camorrista vive ai margini in una situazione familiare poco idonea a creare quegli esempi cui un uomo deve rifarsi per crearsi un modello e delle basi di vita. Quasi mai si pronuncia la parola “camorra”, non perché sia un fenomeno abbattuto, ma per il semplice fatto che siamo talmente assuefatti a conviverci che è diventata scontata per il nostro territorio campano. Ci sono atteggiamenti camorristici pericolosi e, mentre a grandi livelli viene combattutta, nel frattempo ne abbiamo assimilato i modi e gli atteggiamenti che, inutile negarlo, coinvolgono tutti. Il principio su cui si fonda è quella del bene personale includendo la famiglia, gli amici, le persone tutte che contribuiscono a raggiungere questo obiettivo. Parliamo di un gruppo di persone unito da vincoli in cui si radica la ricerca del bene ma che per paradosso lo si conquista con il male. Questa mentalità si oppone alla legalità, cerca di ottenere benefici in vario modo, di ricavare privilegi, di creare la cosiddetta clientela al seguito, di combattere tutte quelle situazioni che non tengano conto di questa prerogativa. Sono atteggiamenti reiterati intorno a noi: in politica, come nei rapporti interpersonali, negli ambienti di lavoro. E mentre la vera camorra la si combatte nei tribunali, la mentalità difficilmente la si può estirpare. La Camorra sul nostro territorio è un fatto storico, radicato e nel tempo è diventato un fatto sociale, per alcuni un ammortizzatore sociale. Il termine, indicava, oltre ad estorsione, anche il “barattolo”. In spagnolo il concetto esprime essenzialmente quello di rissa, disputa, contestazione. Miguel Cervantes propone alcune ipotesi sulla nascita della camorra e tra queste, che nasca a Siviglia, in particolare nella confraternita di Monopodio. Lo attesta il Cervantes quando ci parla per bocca di Sancho che, fatto governatore per burla, fa riscontro di un preciso riferimento alle attività e ai proventi dei “guapi” spagnoli. Francesco Barbagallo, storico della camorra, ne colloca le origini nei meandri di Napoli capitale in età moderna, tra i viceregni di Spagna e d’Austria e il regno borbonico. Una setta formata da masse di diseredati per sfuggire alla fame e alla miseria. Per altri le sue origini sono da collocarsi nelle carceri napoletane del 500, quando i detenuti di maggiore peso e carisma passavano a riscuotere la “camara” un pizzo vecchio stile. Forme disorganizzate e organizzate si hanno a metà 800, tra il 1820-40 con il cosiddetto “frieno”, un vero e proprio statuto che prescrive soprattutto l’obbedienza agli ordini e al mantenimento del segreto. Fino a quel momento le regole esistevano ma non erano scritte e non ce n’era l’esigenza visto che nessuno degli adepti era in grado di leggere. Diventa poi organo di controllo sociale tanto che già nell’800 non si ricorreva più alla polizia ma al capintesta e ai camorristi che davano maggiori garanzia di ritrovamento della refurtiva. Tale attività viene espressa in modo esplicito dalla nota ordinanza del prefetto Liborio Romano che, nel 1860, temendo una sollevazione popolare, recluta i camorristi al proprio servizio legalizzandone il potere. Molti racconti dell’800 hanno come protagonisti camorristi che esercitano di fatto il ruolo di giudici di pace, le cui sentenze sono inappellabili. Durante l’Unità d’Italia, la camorra conosce uno dei primi moventi di soppressione quando il ministro della Polizia, Silvio Spaventa, avvia una forte attività repressiva che porta all’arresto di 500 affiliati e alla conoscenza di alcune norme e regole interne. Pasquale Villari, nelle sue “Lettere meridionali”, afferma che la causa principale della camorra è la miseria. Per quanto riguarda le donne e la camorra, anche per il gentil sesso si ha un ruolo primario all’interno dei clan e nella storia della camorra due sono diventate esempio di rigore e affidabilità per quanto riguarda i ruoli affidati loro: Rosetta Cutolo e prima ancora Pupetta Maresca. La prima donna però a subire il carcere duro, ovvero il carcere di massima sicurezza, è stata nel 1997 Maria Filippa Messina che guidava la cosca in assenza del marito. Il camorrista acquisisce un lento e progressivo abito mentale costruito attraverso il dato ambientale, relazionale e sub culturale del gruppo di appartenenza, quell’insieme di modelli, valori e scelte di vita che orientano l’agire sociale del soggetto e che si nutre di meccanismi della mimesi e del carisma, del perpetuarsi. Il concetto di carisma viene dal greco e significa Incanto, Grazia, Dono, Favore, Merito, Venerazione, una qualità intrinseca che contiene e veicola l’idea di rapporto. Esso trasforma le persone elette in strumenti di mediazione. Si attua il comportamento deviante quando tutte le attese non vengono assicurate dalla conformità alla norma. In quel caso si trova un iter personale fatto di espedienti per conseguire il bene cui si ambisce. La mentalità è ormai radicata sul territorio. Tutti la conosciamo e la combattiamo, ma di tanto in tanto la si scorge nei nostri pensieri, nei nostri rapporti, nelle nostre interazioni e nei nostri atteggiamenti. Spesso la scambiamo per maleducazione o per aspetti del carattere, come la “strafottenza”, il menefreghismo, la “cazzimma”, l’opportunismo, la prevaricazione, l’usurpazione, il boicottaggio, arrogarsi un diritto, e la lista potrebbe continuare. Li definiamo atteggiamenti caratteriali che non sono stati limati dall’educazione e talvolta ce ne vantiamo quasi fossero l’esplicita dimostrazione che “qua nessuno è fesso” e noi sappiamo “campare”. E se l’educazione non smussa questi reprensibili stili di vita, la risposta è nel territorio che li ha fatti suoi. D’altra parte, per sconfiggere una mentalità deviante, bisogna conoscerla a fondo per poi prenderne le distanze, sempre che a questo punto non si diventi arrendevoli a quel modo di pensare. Una mentalità camorristica è di gran lunga più pericolosa e malsana del fenomeno storico e attuale che tutti conosciamo, oltre a diventare terreno fertile per ogni sorta di attività contraria alla norma. Quando, a questo punto, la legge crea delle eccezioni e non è più uguale per tutti, si scompagina tutto il sistema.

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