di Filomena BarattoC’era una volta il treno, quello che vedevo dal mio terrazzo, per un tratto lunghissimo fino a scomparire. Era rosso pompeiano e beige. Alla partenza, dopo il fischio, si sentiva il rumore sordo dei binari, e lentamente accelerava fino a una velocità sostenuta, ma non così veloce come oggi. Mi piaceva molto quel prototipo degli anni sessanta per assomigliare ai miei trenini che viaggiavano sul pavimento della camera. Quando lo vedevo girare in circolo, si accendeva la mia fantasia: dove poteva andare, chi portava, quali fermate. Girando, tornava sempre da me, dopo aver percorso tutta la stanza. Quando partiva, ero in apprensione: poteva sempre deragliare, scivolare, abbattersi per un nonnulla. Per prevenire possibili incidenti, mi sedevo accanto e tenevo tutto sotto controllo. Questa possibilità di immaginare e curiosare tra i vagoni, prevedere i luoghi dove arrivava, scegliere chi far viaggiare era un’attività d’infinita costruzione mentale. Simulavo le voci dagli altoparlanti quando arrivava in stazione, ma soprattutto davo dei segnali per far capire in quale città arrivasse. M’interessavano le mete.
Quando salivo nel treno, c’era sempre la possibilità di un posto a sedere. Sceglievo quello accanto al finestrino per leggere e poter ammirare il panorama. Se per un breve percorso, restavo nell’atrio. Raramente rimanevo in piedi per lunghi tratti. Quando accadeva, mi giravo attentamente intorno, guardando negli occhi tutti quelli che incontravo con lo sguardo. Non c’era il cellulare, e di solito con una mano tenevo un libro da leggere e con l’altra mi appoggiavo.
L’unico intrattenimento possibile era guardarsi intorno e scoprire i volti degli altri, una geografia che abbiamo purtroppo dimenticato. Vedevo roteare le orbite di quelli che non resistevano più a stare in quella posizione, quelli che mangiavano senza sosta, e quelli che, spiegando il giornale a 360 gradi, occupavano un metro quadrato di spazio. Lungo i finestrini scorrevano campi, chiese, mare in lontananza, ponti, autostrade, abitazioni, e si faceva il conto del tempo mancante alla meta. Osservando attentamente, si scopriva l’avvocato, l’insegnante, lo studente, il commerciante. E dopo un’ora e mezzo di viaggio, finiva lo studio approfondito di chi ti stava intorno. Lungo i sedili scorreva la fila di chi teneva alta l’attenzione per non mancare la stazione di arrivo, ma c’erano anche quelli che leggevano solo appoggiati da qualche parte, dondolando secondo l’andamento del treno, quasi a cullarsi. Alcuni dormivano certi di avere il tempo a disposizione fino all’arrivo. Bei tempi per la Vesuviana.
Il treno non ha più una sua fisionomia, è diventato un brutto elemento artificiale che deturpa anche il paesaggio. Non solo per l’incuria in cui cade, ma soprattutto per il mancato interesse di volerlo migliorare. E mentre una volta il treno era un privilegio di pochi, oggi è una necessità per tutti. Viaggiare in Vesuviana è una vera avventura. Può accadere anche di dover scendere per un guasto e finire a camminare sui binari. La vita da pendolare sul treno è la più massacrante che ci sia, più del lavoro stesso. Molti passano le loro giornate sulle stazioni, in attesa. Il servizio è degradato anche per mancanza di concorrenza. Oggi il treno si presenta affollato all’inverosimile, pericoloso, di cattiva immagine per i turisti che hanno come primo impatto l’inefficienza dei mezzi di trasporto, oltre al mancato rispetto per chi nel treno ci vive ogni giorno. E mentre gli abbonamenti corrono mensilmente pagando le corse in anticipo, c’è il pericolo poi di non arrivare nemmeno al lavoro. I trasporti muovono masse di persone ogni giorno, dare loro un pessimo servizio non migliora nemmeno chi lo eroga. La parola più frequente sulla bocca di chi viaggia nel treno della Vesuviana è “speriamo”: che parta, che arrivi, che faccia in tempo, che non mi lasci a piedi, che non ci sia lo sciopero.
Nessun commento:
Posta un commento