Di Aniello Di Vuolo, Vice Segretario Nazionale della Democrazia Cristiana
Vico Equense - Non basta Massimo L. Salvadori a invocare un “programma di governo” per la sinistra, consapevole che la sbornia elettorale induce molti a credere che Berlusconi sia già sconfitto e che tornare a palazzo Chigi sia cosa fatta. L’impressione è che il micidiale frullato delle elezioni amministrative abbia da un lato fatto perdere la testa a molti e dall’altro abbia ingenerato aspettative del tutto immotivate. Partiamo dai “vincitori”. Fanno sorridere, ma anche preoccupare, i goffi tentativi del Pd di intestarsi il risultato elettorale. E’ vero che in molti centri sono stati eletti candidati espressi dal Pd, ma non v’è chi non veda che il vero risultato politico lo hanno ottenuto Pisapia a Milano e De Magistris a Napoli, cioè due non solo che con il Pd non hanno nulla a che fare – il primo ha battuto il candidato del partito, Boeri, alle primarie, mentre il secondo aveva contro la lista capitanata da Morcone – ma che sono pure portatori di due linee diametralmente opposte su un tema cruciale come quello della giustizia, la cui coesistenza comporterà non pochi problemi in una sperata futura coalizione di governo. Quanto ai risultati di lista e ai sondaggi più recenti, il Pd non si schioda dal suo 26-27%, risultato che in caso di elezioni politiche rende obbligatorio – a parità di legge elettorale – fare alleanze politicamente ingombranti con la sinistra più radicale e con i giustizialisti. Eppure, da Bersani in giù, è tutto un fiorire di dichiarazioni e atteggiamenti esuberanti.
Paradossalmente, il più misurato è stato Pisapia che, aiutato dal suo stile impeccabile e da una moderazione caratteriale che lo rende interlocutore affidabile, ha persino zittito il facondo Vendola (ah, quanto ce ne sarebbe bisogno del suo silenzio). Adesso, poi, il Pd è tutto preso dalla libidine referendaria. La tentazione c’era già un po’ stata prima della sentenza che riammette il voto sul nucleare, ma dopo il pronunciamento della Cassazione è stato tutto un fuoco d’artificio. Persino la misurata Finocchiaro ha già messo in conto il raggiungimento del quorum e chiesto che subito dopo la consultazione il premier si dimetta in funzione della vittoria dei sì. A parte l’eccesso di precipitazione, la cosa che più sconcerta è vedere fior di riformisti cadere nella tentazione di barattare una posizione ragionevole sui tre temi oggetto di voto con la possibilità di fare “filotto” sommando alle amministrative i referendum in chiave antiberlusconiana. Eppure sono molti anche a sinistra quelli che non hanno preclusioni ideologiche verso l’atomo e verso la liberalizzazione della gestione (non la proprietà) dell’acqua. Chiamparino, per esempio, partecipa lunedì 6 giugno ad un evento di “Roma InConTra” a favore del “no” sull’acqua: sarà accusato dai suoi di essere poco interessato alla caduta del governo Berlusconi? Capiamo che vedere vicina la fine del Cavaliere faccia venire la voglia di non distinguere, ma ciò non toglie che questo comportamento sia politicamente insano e puerile. Ma se volgiamo lo sguardo a destra, non sono certo minori i motivi di sconcerto e preoccupazione. La stessa modalità con cui si è scelto Alfano quale segretario politico, che nella testa del premier è già una grande concessione a chi mostra di avere dubbi sulle sue capacità di tenuta dopo la sconfitta e le molte prove logoranti cui è stato (e a cui si è) sottoposto, finisce per depotenziare l’effetto di un passaggio che pure avrebbe un significato non marginale. Non solo il nome di Alfano, ma la stessa idea di prevedere un segretario politico, sono emersi non in un contesto di discussione democratica, ma nel chiuso di una direzione che non ha avuto alcuna premessa e non avrà altro momento successivo se non una ratifica formale. Senza contare che per il povero Alfano, schiacciato tra l’invasiva presidenza di Berlusconi e la permanenza (senza senso) del triumvirato che ha guidato (si fa per dire) il partito fin dalla sua nascita, avrà ben poco spazio per esprimere un minimo di autonomia. Ci sta chi attribuisce proprio a questa “obbedienza cieca che avvelena” i guai del Pdl. E ha ragione, anche se manca di osservare che il problema non attiene solo alla caratteristica “padronale” della figura di Berlusconi, quanto alla mancanza dei partiti – generalizzata, non solo a destra – la cui funzione è stata demonizzata fino a decretarne la morte. Non solo, l’opzione a favore del sistema maggioritario e bipolare applicato in un paese frazionista e vittima di una spinta qualunquista alimentata negli anni in cui imperversava “mani pulite”, ha finito col favorire il fenomeno di personalizzazione della politica e di affermazione di leader a valenza mediatica al posto degli statisti, di cui ora – finalmente – vediamo tutti gli effetti perversi. Insomma, siamo di fronte alla crisi dei due poli del bipolarismo, e quindi del sistema politico nel suo insieme, non solo più per mano degli elettori, come è stato nei due turni delle amministrative, ma per effetto delle conseguenze che si sono determinate dopo il voto. L’impressione è che il percorso di questa crisi sarà ancora lungo – salvo che qualcuno abbia quegli atti di coraggio che fin qui sono mancati – e decisamente contrastato, per non dire sanguinoso. Speriamo solo che alla fine di questa tormentata fase della vita del Paese ci siano le condizioni per costruire, tutti insieme e nel migliore dei modi, una nuova Repubblica.
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