mercoledì 18 gennaio 2012

Carlo Fermariello, la modernità di “un uomo di massa”. Il ricordo a quindici anni dalla sua scomparsa

Di Marco Ciarafoni

Sono trascorsi 15 anni dalla scomparsa di Carlo Fermariello. Ieri come oggi sentiamo ancora la forza del suo temperamento, la lucida combattività, la concretezza del suo agire. E’ stato per l’Arcicaccia, fin dalla fondazione, una guida forte e sicura e per la caccia italiana un baluardo insormontabile contro qualsiasi ipotesi abolizionista e privatrizzatrice. Con Carlo Fermariello si rafforza la caccia pubblica, sociale e popolare: “una variante democratica” rispetto agli altri paesi del mondo, amava ripetere con quanti, guardando oltre i confini nazionali, banalizzavano i ragionamenti su tempi e specie cacciabili anziché guardare allo spessore complessivo, identitario e culturale della caccia italiana. Ed è proprio dalla penna e dall’elaborazione di Carlo Fermariello, e dall’amicizia con il professor Giuseppe Montalenti, allora presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche, che nacquero le felice intuizioni, prima con la legge 968 e poi con la legge 157, della fauna patrimonio indisponibile dello Stato e del legame del cacciatore col territorio in una chiave di gestione, responsabilità e di protagonismo. Due aspetti primari che sommati all’articolo 842 del codice civile, che consente ai cacciatori il libero ingresso, nel rispetto della pianificazione faunistica venatoria, nei fondi privati, rendono la legislazione italiana unica nel suo genere perché offre la possibilità di collocare la specificità di una attività e di un gesto legato alle tradizioni, agli interessi generali del Paese. E’ questo impianto che ha consentito di superare indenni le mille traversie referendarie poiché la caccia sapeva e poteva parlare al Paese il linguaggio della responsabilità verso il bene primario dell’ambiente e della fauna e di rafforzare la sua collocazione naturale nelle dinamiche socio-economiche della ruralità, imperniate su una agricoltura orientata alla qualità e alla multifunzionalità.


Il realismo di Carlo Fermariello, qualunque fosse il luogo di impegno politico, sindacale, associativo, non può essere confuso con un atteggiamento di arrendevolezza, come qualche detrattore amava strumentalmente ripetere al momento dell’approvazione della legge 157 e nelle circostanze del suo più diretto impegno in politica. L’”uomo di massa” Carlo Fermariello era consapevole che la partita della legittimazione della caccia non doveva rinchiudersi nell’effimera prova dei muscoli di una corporazione e tantomeno, di fronte alla sconfitta, abbandonarsi al destino cinico e baro. In questo è stato un autentico riformista che sapeva coniugare capacità di lotta e flessibilità negoziale. Un profilo che trova subito riscontro fin da giovanissimo, allorché nella battaglia antifascista aderisce a “Giustizia e Libertà” e poi al Partito d’Azione. Nel Pci trovò naturale impegnarsi accrescendo altresì capacità critica e una sorta di anticonformismo verso gli apparati, le scelte dettate dall’alto, pur mantenendo sempre forte il legame con l’organizzazione. L’indipendenza di giudizio la esercitò a maggior ragione nel ’56 di fronte all’invasione sovietica a Praga e fu tra colorò che firmò il “manifesto dei 101” di condanna dell’invasione. Così è stato successivamente nella Federbraccianti e nella Cgil, chiamato a svolgere incarichi nella segreteria nazionale a sostegno delle lotte dei braccianti, delle mondine, dei lavoratori, ma pure nel Pci e nel Pds, nella sua Napoli e nel suo Mezzogiorno od anche quando combatté, vincendo, contro un referendum sulla caccia che vedeva impegnata, seppure con intenti riformatori, una parte della sinistra. Significativo al riguardo la decisione dell’allora Pci, in un comitato centrale, dopo l’autoconvocazione di un gruppo di militanti, amministratori e dirigenti del partito in dissenso con la linea intrapresa, di passare dalla posizione di sostegno al voto di coscienza. Parlamentare per quattro legislature non dimenticò mai, a cominciare dal lavoro oscuro e prezioso delle commissioni alle quali partecipava, ciò che era od era stato e lo faceva con entusiasmo ed una innata allegria. Aveva capacità di ascolto degli altri, da democratico acuto e sensibile quale era e nell’asprezza della battaglia (una volta decisa non erano ammessi tentennamenti) manteneva aperta la strada del dialogo perché non abbandonava mai la sua vocazione all’unità. In questo, in particolare nella caccia, sapeva essere incalzante ponendo le questioni di merito sopra ogni cosa. Con Fermariello vi è la firma storica del patto con agricoltori e Regioni e comincia un più stretto raccordo e dialogo con l’associazionismo ambientalista. L’unità non era un fine ma un mezzo per far decollare un progetto, raggiungere degli obiettivi, anche scomodi o considerati con leggerezza impopolari. L’Unavi, l’organismo unitario del mondo venatorio per molti anni, fu un traguardo che Fermariello raggiunse insieme ad altri autorevoli dirigenti del mondo venatorio, Rosini su tutti. La diversità delle opinioni non impediva a quei dirigenti di guardare oltre la “bottega di casa” e ciò si è verificato anche con il riconoscimento della Fidasc nel Coni in luogo della rappresentanza di parte dell’associazionismo venatorio. Le grandi aperture che vedevano protagonista Fermariello non erano mai banali o dettate da ragionamenti tattici, mai avrebbe sopportato una associazione senza testa e senza cuore, capace di vivere alla giornata o aspettare periodi migliori. Le bandiere dell’Arcicaccia hanno sempre sventolato dove c’era la necessità di tutelare diritti e esercitare solidarietà e mutualismo. In questo contesto fu il presidente fondatore del Prociv e del Csaa, organizzazioni legate al volontariato di protezione civile e alle attività ludiche, ambientali e sportive che si svolgono all’aria aperta. L’anticonformista Fermariello trova la più eclatante delle espressioni quando, superando le resistenza di molti nel suo Partito, accettò il ruolo di attore nel film (Leon d’oro a Venezia) di Francesco Rosi, “Mani sulla citta”. Di fatto quel giovane consigliere comunale di Napoli, che combatteva contro la devastazione urbanistica della città nel periodo “laurino” trovava in Carlo Fermariello un interprete autentico della vita politica di allora. Molti anni dopo, alla stessa stregua, può essere considerata la vittoria a Vico Equense per dare a quella realtà una amministrazione che potesse offrire una solida prospettiva di cambiamento. Fu una campagna esaltante sostenuta da una gruppo di valorosi giovani che riconobbero a quell’uomo e a quel politico di una certa età, capacità di innovazione, di trasparenza e di riscatto per la loro città. La morte di Carlo, dopo pochi mesi dalla sua elezione, interruppe il corso della storia. Le idee di Carlo, per quanti lo hanno conosciuto, non moriranno mai ed ancora oggi meritano attenzione e rispetto in una società, caccia compresa, che sembra aver perso fiducia, speranza, capacità di afferrare il futuro. E tutti noi, nel ricordo di Carlo e nel segno della buona Politica, dovremo avere (e avremo) la forza di guardare oltre quella che sembra essere “l’ultima spiaggia”. Per il bene del Paese.

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