mercoledì 8 maggio 2013

La confusione del Pd

di Claudia Mancina da qdrmagazine.it 

A pochi giorni dall'assemblea che dovrebbe decidere la successione a Bersani e il percorso per il congresso, il Pd manda preoccupanti segnali di confusione mentale. Si fanno nomi diversi di possibili segretari, ma senza che sia chiaro se si tratta di veri segretari o di reggenti, e soprattutto senza che da parte loro o dei loro sostenitori si definisca un'idea di partito. Si discute se fare o no il segretario senza primarie; se fare o no il congresso; se separare il ruolo di segretario da quello di candidato premier: unificazione nella quale gli estensori dell'attuale statuto hanno visto invece la vera carta d'identità del partito. Sono tutte questioni da discutere, o lo sarebbero, se poste con serietà e chiarezza. Sono invece gettate lì, lasciando libero gioco alle varie dietrologie giornalistiche e non solo. Si vogliono distinguere i ruoli di segretario e di candidato premier per mettersi in condizioni di sparare sul governo? O per ridurre le eventuali chances di Enrico Letta in una prossima corsa? O, viceversa, per aumentarle? O per tenere in caldo il posto per Renzi? Una gran confusione davvero. Se poi andiamo alla domanda delle domande, quella che sta sotto a tutte le altre, cioè la domanda su quale partito vogliamo, il panorama delle risposte è sconsolante. Continua la rituale e generica polemica verso il "partito liquido" a favore di un non meglio identificato partito solido, che nessuno di quelli che sono diventati segretari su questa base, da D'Alema a Bersani, ha mai spiegato che cosa sia, e ha mai nemmeno tentato di realizzare. Cofferati addirittura ha sostenuto che il Pd non ha vinto le elezioni a causa del successo delle primarie (!). Il corposo contributo di Fabrizio Barca, dal quale ci si aspettava molto, vista la sua dichiarata volontà di dedicarsi al partito, è apparso fuori tempo e fuori luogo come il modello da lui proposto: il modello del partito-intellettuale collettivo, elaboratore non solo di politiche ma di conoscenze e di analisi teoriche. Il Pci degli anni Settanta, insomma. Un modello di tutto rispetto, ma quanto adatto al mondo di oggi? Un mondo nel quale tutti i partiti hanno ridotto le loro ambizioni "cognitive" per dedicarsi a una funzione più delimitata ma non meno importante, che è quella di selezionare proposte di governo e personale politico. Il Pd non fa nessuna delle due cose, come è evidente dalla mancanza di proposte esibita in campagna elettorale, e oggi dalla difficoltà di trovare nomi convincenti per la segreteria.
 
Dunque quella che il partito sta attraversando è una crisi dai molti aspetti: di leadership, in primo luogo, ma anche di identità, di prospettiva, di vocazioni, se possiamo usare questo termine. La profondità di questa multiforme crisi si misura dal fatto che, se volessimo discutere su questi temi, non sapremmo dove farlo. Certo non nell'assemblea, che è troppo grande e può tutt'al più trarre le conclusioni di una discussione già effettuata. Ma neanche nella direzione, che per antica consuetudine viene riunita quando non serve e, se serve, provvede a chiudersi la bocca. Non sarebbe normale fare una direzione prima dell'assemblea? Ma no, bisogna tenere i conflitti sotto traccia, negoziarli nelle riunioni segrete e nei caminetti, e mai farli emergere alla luce del sole come divisioni politiche. Ma senza battaglie politiche un partito muore. E' nelle battaglie politiche esplicite che si formano i dirigenti. Altrimenti ci sono solo scontri di potere, cooptazione sulla base della fedeltà, e, viceversa, spostamenti opportunistici, come quelli che sono in corso verso Renzi, non sulla base delle idee, che restano distanti, ma sulla base di interesssi di potere. Renzi: potrebbe essere l'errore della sua vita non impegnarsi per la segreteria. O forse ha ragione. Ma se è così, se ha ragione, vuol dire che il Pd ha iniziato la rapida china verso la fine.

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