lunedì 22 agosto 2022

Un buon caffè

di Filomena Baratto

Bere un buon caffè è un rito, la nostra pausa quotidiana per antonomasia. Siamo così legati a questa bevanda che quando andiamo all’estero è la prima cosa che apprezziamo o di cui ci lamentiamo. Per il paese ospite è una difficile prova da superare. Non ci dispiace per niente trovarlo poi imbevibile, ci rende orgogliosi della buona tazza nostrana. Nessuno al mondo è così esigente col caffè quanto gli italiani. Il nostro gusto è molto severo. Sul caffè il napoletano, poi, ha sempre da ridire. Di quello che compra vuol conoscere tutto. A cominciare dalla stiva della nave che l’ha trasportato. Sa dire se contiene un lontano odorino di muffa dei luoghi umidi che l’hanno accolto. Controlla la fragranza e se la confezione è a norma per proteggere l’aroma. Il macinacaffè deve ridurre i grani a polvere pura quasi fosse da sniffare. Un buon caffè prevede una miscela macinata al momento, una moka impeccabile, una dosatura millimetrica con gli indici a prova di nervi, un fuoco lentissimo. Se poi ci si vuole proprio impegnare, allora toccherà piantonarsi accanto ai fornelli come un soldato di picchetto pronto a fucilare la prima goccia che fuoriesce dal raccoglitore. Una sacra goccia che finirà nello zucchero della caffettiera per farne una crema da incorporare al caffè. Se alla moka si sostituisce la macchina tipo bar, anche lì non si scherza. L’acqua sarà decalcificata e poi la quantità, la cosa più difficile da dosare. E’ questo un fondamentale fattore di riuscita del caffè. I grani saranno macinati al momento. E poi si programma se ristretto o meno. Il tempo che dedichiamo a bere il caffè è sacrosanto.


 

Con la tazzina in mano facciamo di tutto e quando è vuota restiamo ancora nella stessa posizione. E' questo il momento verità: solo ora sappiamo che caffè abbiamo bevuto. E poi le nostre manie: scegliamo il bar che lo sappia fare bene, mentre a casa il caffè è affidato a chi è più devoto al rito e lo prepara allo stesso modo della celebrazione eucaristica. Il caffè non vuole fretta, è più di una pausa. E’ il modo migliore per fermarsi da soli o in compagnia. Potremmo definirlo un aggregatore di masse o un assolo perfetto. Anche la postura per bere il caffè è d’obbligo: la tazzina in mano a mezz’aria, fumante che diffonde il profumo intorno e noi lì fermi come bradipi in ascolto di quello che il caffè ci dice. E’ un dialogo silenzioso. E anche in compagnia, siamo sempre concentrati al gusto, a quello che evoca, a cosa ci rimanda. Alla fine, di quel caffè abbiamo fatto le analisi. Sappiamo dire se zuccherato al punto giusto, se con un retrogusto, se troppo sul fuoco, se bruciato, se un cattivo odore, finito nell’acqua o nella miscela, sia giunto nella nostra tazza. A queste condizioni come possiamo sperare che altrove facciano un caffè all’altezza del nostro? Già le tazzine fanno la differenza: piccole, spesse. Per intenderci le tazzine cinesi non vanno bene, troppo sottili e le labbra non hanno un buon appoggio. La tazza deve essere preziosa, di marca, da bar, se possibile. Nessun altro paese ha il nostro culto per il caffè che va dai grani alla tazza, dall’acqua al fuoco. Ecco il motivo per cui altrove è una brodaglia, un orzo, un’acqua sciacquata. E anche quando chiediamo un caffè napoletano, beviamo un ibrido. E se per caso ci imbattiamo in un buon caffè all’estero, senza dubbio, è un napoletano a farlo.

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