Soprattutto oggi, giorno del suo ottantantesimo compleanno, Ciriaco De Mita non rinuncerà, si può pensare, alla convinzione che il mondo resta un´estensione geografica e mentale di Nusco. La sterminata pubblicistica ha spesso sottolineato i tratti coreografici di un cosmopolita di provincia. Il marcato accento dialettale; la sintassi labirintica che procurava il mal di testa ai traduttori simultanei, costringendoli all´abbandono plateale delle cuffie: capitò a Mosca negli anni Ottanta, quando De Mita era capo del governo e Sergio Romano l´ambasciatore italiano. De Mita possiede un innegabile talento per la coltivazione scientifica del risentimento.
Gli piace detestare analiticamente qualcuno che ha considerato figlioccio, quindi liquidarlo con icastici commenti all´insegna, ovvio, del tradimento. Le collezioni della stampa sono a disposizione del lettore curioso. Di pettegolezzi e di autobiografia travestita da giudizio: il rancoroso rivolto negli ultimi giorni a quel Prodi, da lui lanciato negli anni Settanta alla Presidenza dell´Iri. Nell´universo del notabilato demitiano la fedeltà è un requisito prepolitico, lo stigma di un´appartenenza che tradisce una concezione inscalfibilmente premoderna. Il clan rimane la cellula etica e sociale. I membri, pargoli dai denti robusti e dalle menti fertili cresciuti all´ombra di Fiorentino Sullo, che negli anni Cinquanta riteneva il Mezzogiorno irpino base di partenza per la riconquista democristiana, modernizzatrice e tecnocratica. I Salverino De Vito, i Nicola Mancino, che naturalmente si mangiarono il padre e novelli Crono si esposero al rischio di essere perennemente divorati: dai Mastella o dai Gargani, i figli di turno. Il classico romanzo familiare. Molto meridionale, forse terribilmente italiano. Raccontato da Eugenio Scalfari in una pagina della sua autobiografia, "La sera andavamo in Via Veneto". De Mita che lo riceve, chiaramente a Nusco e, parlandogli alla presenza dei fedelissimi, chiama per nome questo o quel potente, planetario o locale. Rigorosamente per nome: una confidenza necessitata da un codice marcato dell´appartenenza quasi fisica. Un´ossessiva riproduzione, su larga o ristrettissima scala, della logica amico-nemico, cara a un altro cattolico, Carl Schmitt. Nemico è chiunque, a cominciare dagli odiatissimi giornalisti, chieda conto di come si concilino i famosi ragionamenti, maratone discorsive durate magari sei ore, con talune pratiche di potere, duro ed esibito. Avellino, la sua città, rimane militarizzata, da un certo punto di vista. Un laboratorio che sta chiudendo i battenti, giacché non funziona più l´idea cara al De Mita degli ultimi tempi: la Campania serbatoio di voti dell´intero centrosinistra nazionale, ergo terreno per epici scontri combattuti con un avversario ugualmente coriaceo, Antonio Bassolino. Proprietari di idiomi difficili, apparentemente votati all´incomunicabilità, pure destinati all´inevitabile comprensione: qualsiasi riferimento alla faccenda della sanità regionale è puramente casuale. Lo vediamo, il De Mita glocal intento a festeggiare nella Nusco sepolta dalla storia e dalla cronaca, che riproduce un mondo segnato dalla guerra fredda permanente. Un tenero ricordo novecentesco, viatico per un futuro augurabilmente più verde di quello irpino. (Marco Lombardi da la Repubblica Napoli)
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