domenica 15 febbraio 2009
Bevevo un tè e aspettando una mozzarella baciai una giraffa (di Virgilio Panarese)
Ho dimenticato il silenzio, un fruscio di fondo, un rumore bianco, un’interferenza continua è la presenza frequente nelle mie giornate. In piedi, strapazzato nel bel mezzo di un oceano umano in tempesta, puntuale come mai lo ero stato prima mi ritrovo nella metro che mi condurrà dritto a lavoro. Il paesaggio al di là del vetro è squallido, stuprato, il degrado dei sobborghi urbani londinesi è come il pianto di una saracinesca colpita violentemente da un sasso. Urla e strepiti metallici sono da per tutto. Lamiere che implorano pietà inutilmente, tritate in bocche meccaniche dotate di denti da pescecane. Fumi e scarichi sono ovunque, l’aria è macchiata e chiunque mi circonda ha una patina nera che come una pellicola sottilissima ricopre centimetro per centimetro ogni parte del corpo. La natura è stanca da secoli e non fa altro che piangere giorno dopo giorno. Una pioggia sottile, finissima come le lacrime di una madre dinanzi alla perdita prematura di un figlio. Un dolore quotidiano, incolmabile che svuota lentamente le nuvole come occhi troppo gonfi e stanchi per piangere all’impazzata. Fisso il paesaggio muoversi in un vortice di toni grigi, i pochi colori provengono dalle grosse insegne pubblicitarie sparse in maniera del tutto casuale su grattacieli, palazzine e ponti… CONTINUA
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