Troppa rassegnazione tra i cittadini. Molti criticano, pochi sono disposti a scendere in strada. Crisi, povertà diffusa
da Agorà
Sorrento - "Le nostre comunità sono spesso passive, rassegnate alle cose che non vanno, poco propense a farsi sentire e lottare, partendo dalla sanità. A Vico il pronto soccorso è chiuso, a Sorrento la rianimazione funziona a singhiozzo, la chirurgia è ferma. Ci spiegano: i medici non vogliono venire in costiera. Come se fosse una risposta sensata. Se c’è un ospedale, deve funzionare.” Cosi Don Carmine Giudici, parroco della Cattedrale di Sorrento. Con lui abbiamo parlato anche della povertà che arriva a colpire ceti considerati immuni al disagio sociale, della crisi dei servizi sanitari in Penisola sorrentina, appunto, passando per il ruolo nuovo che è chiamata a svolgere la chiesa sul territorio. La comunità sorrentina ad un anno dallo scoppio della pandemia. Quant'è diffuso il disagio sociale, chi colpisce e come reagiscono le persone? Il disagio sociale è diffuso e non risparmia nessuno. Ci troviamo in una rara e tragica circostanza per cui non c'è una sola categoria immune dalla crisi economica scaturita dall'emergenza sanitaria. Poi, in un territorio come il nostro, a prevalenza turistica, la crisi è acuita proprio dal fatto che l'economia, in prevalenza, dipende da un unico mercato di riferimento, quello turistico. Chi chiede aiuto e quanti sono? Sono tanti, ovunque, ogni giorno incontriamo due, tre, ma anche quattro famiglie che sono in difficoltà. Chi sono? All'inizio della crisi, penso ai mesi di aprile-maggio, commercianti che non riuscivano a pagare i fornitori. Poi con il tempo, a partire da novembre e dicembre, il disagio si è esteso all'intera filiera del turismo: dipendenti dei ristoranti, hotel, fino a guide ed NCC. Dal suo osservatorio, in questo particolare contesto, è cresciuta la solidarietà o l'egoismo? C'è stata maggiore solidarietà all'inizio, il bisogno di ciascuno ha portato a considerare i bisogni altrui. Dopodiché è subentrata la rassegnazione, la delusione, la rabbia e la paura. Si è registrata qualche chiusura in più, maggiore individualismo. Ma i segnali di speranza e solidarietà resistono.
In una zona a turismo prevalente, gli imprenditori del settore alberghiero hanno un ruolo economico ma anche sociale decisivo. Secondo lei si sono fatti carico delle esigenze della comunità o si sono chiusi nel proprio fortilizio? Ne ho incontrati e ne incontro di operatori del settore, piccoli, medi e grandi. Nella stragrande maggioranza dei casi leggo un interessamento sincero alle sorti dei propri dipendenti, soprattutto di quanti hanno la responsabilità di una famiglia. In tanti casi c'è una partecipazione attiva e fattiva alle sorti dei collaboratori che, tra l'altro, spesso sono legati ai titolari da un lungo e costante rapporto fiduciario, proprio per le particolari caratteristiche del lavoro sul nostro territorio. L'estate scorsa la chiesa sorrentina ha contestato alcune scelte imprenditoriali su tempi e modalità di lavoro, com'è andata a finire e c'è il rischio che tali pratiche si ripetano? A distanza di quasi un anno posso dire che si è trattato di episodi circoscritti che abbiamo segnalato, ma che non hanno assunto dimensioni ampie. Lo chef Peppe Aversa ha detto: Sorrento era diventata tossica e invivibile, con un turismo all'insegna del tanto e del troppo. Dopo la pandemia è il caso di cambiare modello. Condivide? Sono d'accordo e cito un episodio per dare la cifra dei limiti di una città schiacciata sul turismo. All'inizio del lockdown, stando qui in cattedrale, vedevo il corso Italia totalmente vuoto, ma non cera una voce che arrivasse dalle case. In questi anni si è consumato uno svuota- mento generale dei residenti dal centro cittadino. Gran parte delle abitazioni presenti in centro sono utilizzate come attività ricettive extralberghiere (B&B, case vacanza...). La conseguenza è che la comunità non è più tale. Gli stessi negozi di prossimità sono prossimi ai turisti e non ai residenti che non ci sono, pertanto con l'assenza del turismo hanno subito un durissimo contraccolpo che altre realtà, come Castellammare di Stabia, ad esempio, non hanno avuto in proporzioni così forti e "violente". La chiesa diocesana insieme ad altri soggetti ha posto i problemi della sanità al centro di una iniziativa di sensibilizzazione delle istituzioni e dell'opinione pubblica. Ci spiega le ragioni di quest'azione? Abbiamo fatto emergere il disagio che ci viene segnalato da tanti cittadini nell'accesso alle prestazioni sanitarie. Il Pronto soccorso a Vico Equense è stato chiuso, la chirurgia a Sorrento ha difficoltà ad operare regolarmente e la rianimazione è attiva ad intermittenza. Ho memoria dei servizi forniti dall'ospedale di Sorrento, non conosco bene la situazione di Vico Equense, ma posso dire che a Sorrento abbiamo conosciuto lunghe stagioni di assoluta eccellenza in tanti campi sanitari. Oggi, c’è un evidente arretramento cui non possiamo non dar voce. E' da tempo che segnalate le cose che non vanno, ma nulla al momento si smuove. Secondo lei perché? Leggo una generale rassegnazione tra i nostri concittadini che non va bene. Molti polemizzano, pochi sono disposti a scendere in strada e, nel rispetto degli altri, lottare. Le risposte che ci sono state fornite sulla riduzione dei servizi sanitari non spiegano granchè. Si dice: è in costruzione l'ospedale unico. Va bene, ma in attesa che si realizzi e nell'auspicio che in tre anni l'opera sia completata, la malattia non si ferma. Ancora, ci è stato detto: l’ospedale di Sorrento è poco appetibile per i medici che devono prestarci servizio. Non riesco a capire, c'è un ospedale a Sorrento, come in tante altre parti d' Italia, lo si faccia funzionare. E sanità pubblica. Nella vostra azione sulla sanità c'è una supplenza rispetto alla politica locale? Noi non vogliamo occupare spazi di altri ma solo generare un processo per promuovere una cittadinanza attiva e reattiva. Siamo partiti come unità pastorale di Sorrento, per poi coinvolgere le unità pastorali dell'intera Penisola ed oggi ci sono oltre cinquanta soggetti e realtà associative distinte che sostengono questo processo di sensibilizzazione. La pandemia ha cambiato tante cose, an che la chiesa presente sul territorio è destinata a cambiare? Il rischio che corre la chiesa è il medesimo che corre l'intera comunità ovvero riprendere quello che facevamo prima, dopo tutto quello che è successo. Il nostro Vescovo, nell'omelia della Messa Crismale lo scorso giovedì santo, ha usato espressioni molto chiare e forti: "No cediamo al fascino subdolo e perciò satanico del recupero di ciò che la pandemia ci ha rubato, appena ci sarà possibile: non è certo la nostalgia del passato a renderci profeti credibili, che anticipano il futuro con parresia evangelica Appassioniamoci invece alla ricerca dei segni di novità, delle tracce di libertà, dei germi di fraternità che ognuno di noi già intravede, ma che solo insieme potremo accogliere e condividere. Un rischio serio, appunto subdolo e pericoloso è quello di replicare gli schemi del recente passato. Ci vuole, invece, coraggio e sapienza per essere più vicini ed assicurare maggiore presenza alle persone che vivono nel bisogno, soprattutto ai più fragili presenti nelle nostre comunità. E le fragilità sono veramente tante, non solo economiche: dalla solitudine alla sofferenza psicologica, dal rischio di non preservate con cura le nostre radici - gli anziani - a quello di non aver cura delle necessità e dei bisogni dei più giovani, dalla implosione di tanti conflitti nelle famiglie alla disattenzione che può invece riguardare la cura di tanti aspetti della vita sociale di una comunità, dai problemi legati alla sanità a quelli legati all'ambiente che ci circonda...dono inestimabile che non apprezziamo e rispettiamo quanto dovremmo. Una considerazione finale sulla pandemia. Amo il Trentino e le Dolomiti, quando posso vado tra quelle montagne. Qualche tempo fa una enorme tempesta, la tempesta Vaia ha devastato quell'area. In un colpo solo il paesaggio è stato trasformato, lasciando un enorme cimitero di alberi, spettacolo deprimente. Poi, questa trasformazione ha permesso di vedere le cime delle montagne ed i rifessi di quelle cime nel lago di Carezza, cose che prima non si vedevano. Si è svelato un altro scenario, un altro spettacolo. Dobbiamo cogliere quanto di nuovo, questo evento doloroso della pandemia, ci costringe a vedere. Non possiamo pensare di rimettere le cose come prima. Guardare il nuovo che avanza ed assumere una prospettiva nuova.
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