domenica 27 marzo 2016

Siamo tutti profughi

di Filomena Baratto

Vico Equense - A volte credo ci sia più forza nei ricordi che nella realtà, come se il vissuto avesse bisogno di riposare e depositare per dare la sua vera essenza. Nei miei ricordi pasquali c’è tanta forza e passione che restano dentro ancora ben scolpiti e vivi. Mi piacevano le funzioni in chiesa, le processioni, le ghirlande di rami di ulivo, le palme di confetti, quel venerdì raccolto e triste a vegliare la morte di Cristo, quando in questo giorno era vietato fare anche un sorriso per mantenere l’atmosfera triste che imponeva la passione. Eravamo bambini come adulti che ci spiegavamo da soli anche l’incomprensibile. Mi piaceva già durante la festa delle Palme, che i rami penduli dell’ulivo, che fuoriuscivano da qualche tre ruote o portati a mano dagli adulti, davanti al Convento di San Francesco, mi investissero con quel fruscio e quel profumo inconfondibile, con qualche oliva che mi cadeva addosso e si posava nelle tasche. Mi piaceva quell’attesa fatta di tranquillità e pensieri positivi, di lavoro per la grande festa. Tutto scandito dagli orari delle funzioni in chiesa, alternando la cucina alla preghiera. Quando l’enorme cucina di Avigliano si riempiva di palme, di confetti, di uova di cioccolato e di caciocavalli, pastiere, capivo che era Pasqua. Ma lo avvertivo già dai fiori sui rami, dai grappoli di gemme sugli alberi, dall’aria che ancora me la sento nei polmoni e dalle corse nei viali, dai rumori dei lavori che si svolgevano nel terreno, da qualche porta che sbatteva per un vento birichino che annunciava la primavera.
 
E correvo tra su e giù facendo le scale a quattro per correre da una parte all’altra. Pasqua era il profumo di dolci, di pasta fatta a mano, di salami conservati con cura, di vino spillato per l’occasione, di liquori, di glasse calde che sapevano di uovo, di palme e caciottine intrecciate, di uova di cioccolata portate in mano con cura come quando si porta il quadro della Madonna, per paura di farlo rompere anzitempo. Pregustare quella sorpresa alimentava le nostre fantasie, così come piluccare il cioccolato e condividerlo con gli altri. Un pranzo di poche portate ma di cibi genuini, di semplice preparazione, consumato in famiglia, quando, anche se tutto era provvisorio, c’era la certezza che la festa portava unione in famiglia. Pasqua non era solo cibo, anzi, quella era una piccola pausa, Pasqua continuava nei campi. Era tempo di controllare le viti, gli alberi da frutta, l’erba da tagliare, prevedere le annate dei prodotti che ne venivano. Il respiro dei campi valeva più di una mangiata, con l’incenso nelle narici che ancora non andava via dalla messa del mattino. Chiesa, cibo, grandi passeggiate, famiglia al completo. Chissà perché cerchiamo la perfezione nei ricordi anche se oggi viviamo Pasque d’amore, sarà quel sentimento di precarietà che contraddistingue i nostri tempi che ci fa rifugiare in un porto sicuro, quello del passato da cui non possiamo essere scacciati. Abbiamo bisogno di accoglienza anche noi che ci reputiamo fortunati proprio come i rifugiati del nostro tempo. Siamo tutti profughi e non solo di terre, ma anche di certezze, di pace. Una pace sempre disgregata, anelata, rincorsa. E’ proprio la forza dei ricordi che ci fa aspirare alla pace, a credere che il nostro benessere sia per tutti ma non è così. Che ci sarà sempre una guerra da combattere e un terrore da abbattere, una forza da conquistare in noi stessi per non mollare, qualcosa che ci manca sempre e comunque. Procedendo nelle nostre primavere, alcune assurgono a valore unico come quelle prime vissute. Primavere intatte, belle, scintillanti luccicano nella nostra mente e stanno lì in bella vista come quadri alle pareti del nostro cuore. E quando fuori nevica e il freddo ci prende, corriamo nelle nostre primavere, al caldo dei nostri ricordi, gli unici che possono darci quella pace che fuori non riusciamo ad avere ed è per lo stesso motivo per cui fuori tutto resta uguale fino a quando non regaliamo queste nostre primavere interiori anche fuori di noi incontrandoci in qualche punto, saldandoci a qualche anello, avvicinandoci su qualche piano all’altro per non sentire il freddo perenne che sempre più spesso investe l’anima.

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