martedì 20 aprile 2010

Bersani è solo, e il Pd non sa come e cosa comunicare

Col senno del poi la Direzione del Partito democratico ha restituito intatti i nodi irrisolti. Che in soldoni sono tre. Primo: Bersani è un uomo solo al comando. Dietro di lui non c’è un gruppo dirigente che abbia lo spessore necessario alla bisogna. Tolti Fassina, l’economista, e Orlando, il garantista, l’intera segreteria è una somma di desaparecidos per i quali è arduo il riconoscimento vocale ma pure quello somatico. Anche questo è uno dei frutti tardivi del veltronismo, inteso come il virus capace, nel nome del rinnovamento e dei talenti, di promuovere l’opposto di entrambi. Da anni a sinistra ci si diletta nell’invenzione di escamotages che aggirano il punto. Non esiste più alcuna formazione delle élites e i processi selettivi si riducono, per inerzia prima ancora che per malizia, a filiere di seconde e terze linee. L’effetto è uno straniamento assoluto e il timido balbettio degli ultimi mesi. Secondo: il Pd è un partito afono. Va bene, in parte questo è frutto del messaggio, ma c’è dell’altro. L’Unità ha confinato la relazione del segretario a pagina sedici per un totale di trenta righe. Sulle altre testate la musica è uscita pure più stonata. La verità è che i giornalisti fanno il loro mestiere come si usa nella seconda Repubblica (che poi nella prima non era molto diverso). Sostano in attesa della fine riunione e poi con due o tre squilli si fanno dare la quadra. L’effetto sono resoconti pilotati dove – e siamo al punto – il partito in quanto tale non è in grado di raccontarsi. Cioè di decidere cosa e come trasmettere di sé all’esterno. Sul tema stanno crescendo i malumori e Bersani potrebbe scegliere di fare una sterzata con la nomina di un capo politico delle relazioni esterne. Esattamente ciò che finora aveva intenzionalmente evitato. Terzo: l’ultima colonna dello Scalfari domenicale ha fatto sanguinare i cuori e irritato parecchi. Lo j’accuse è stato violento: un partito senza autorevolezza per intervenuta mutazione antropologica della sua classe dirigente. Inutile star lì a inventarsi marchingegni federalisti, la malattia è penetrata nell’organismo e di un paio d’arti si vedono già i segni della cancrena. E’ un sentimento diffuso ma che a differenza di prima non suscita un appello moralistico. Adesso ci si interroga sul vuoto di credibilità e se ne temono le conseguenze. Ha riferito uno degli amministratori sopravvissuti sopra il Po che il dramma è tutto lì. Nel dire cose magari sacrosante ma con impatto pari a zero, semplicemente perché la fonte non è ritenuta affidabile. Se le cose stanno così – mancanza di un gruppo dirigente, assenza di eco, perdita di autorità – il pallino torna nelle mani di un leader, Bersani appunto, che bene o male ha svernato e che dovrebbe adesso manifestare un segno di coraggio. Come? Ad esempio con tre mosse ravvicinate. Uno: riprendere subito il controllo dell’Unità, con un nuovo assetto proprietario e un cambio della direzione. In alternativa, studiare la cordata per un nuovo giornale che lo accompagni senza sorprese nell’avvio del progetto 2013. Due: azzerare il coordinamento politico (il famigerato caminetto) e rifare una segreteria coi fiocchi. Dentro un mix di personalità giovani e non, ma tutta gente in grado di far politica. Insomma un gruppo dirigente, di quelli che alla sinistra mancano da una vita. Terzo: intestarsi la rivoluzione morale dentro il Pd. E’ dura, è vero. Ma ne va della sua (di Bersani) reputazione. Deve alzare la voce, riscrivere in parte le regole della vita interna e reimpadronirsi del governo di alcune decisioni comunicando la fine dell’anarchismo. Non basterà ma sarebbe un inizio. (The Frontpage.it)

Nessun commento: