venerdì 3 dicembre 2021

Atmosfere di una volta

di Filomena Baratto 

Qualche giorno fa a scuola, durante la mensa, un’alunna ha cominciato a sminuzzare la buccia del mandarino per poi costruire un personaggio sulla tovaglietta bianca. A ruota anche gli altri. Mentre si spandeva un profumo per l’aula, ho cominciato a raccontare cosa ci facevamo noi, una volta, con le bucce dei mandarini. Raccolti intorno a un tavolo, davanti alle cartelle della tombola, tutti avevamo le mani piene per giocare nelle feste di Natale. I ragazzi mi ascoltavano attenti ma con difficoltà: non avevano alcun ricordo simile. Intanto narravo del contenitore scosso energicamente per avere il numero vincente. Anche chi non sopportava il gioco della tombola si fermava con gli altri attorno al tavolo. Non era solo il desiderio di giocare a trattenerci, quanto il calore dello stare insieme che accadeva di rado e soprattutto durante le feste. Tra un giro e l’altro arrivavano, sotto i nostri occhi, le zeppole all’anice e miele e poi gli struffoli, come chiedeva la tradizione. Bastava il profumo dei dolci a caricare ancora di più la voglia di giocare. Tra un assaggio e l’altro si sentiva la voce di turno che strillava: il morto che parla, l’Italia... C’erano i familiari, gli amici, le persone che frequentavano la casa, i vicini. La maggior parte dei ragazzi di oggi non conosce le tradizioni del Natale, non sa che le bucce di mandarino andavano nel fuoco per profumare l’aria, che le zeppole e gli struffoli erano pronti già per l’Immacolata, che in questo periodo inizia la novena alla Madonna, che i paramenti sacri in chiesa cambiano colore in base ai giorni di festa. Molti ragazzini stentano a fare anche il segno della croce , altri non conoscono il nome del Papa, e il significato della parola parroco, o il sacramento della cresima.

 

Quando ho raccontato ciò che facevamo noi adulti di oggi, raccolti intorno a un tavolo, non sapevano nemmeno che esistesse il gioco della tombola. Come spiegare che, finiti i pezzettini di mandarino, si continuava con i fagioli, che ad ogni pie’ sospinto rotolavano giù e bisognava raccoglierli subito per posizionarli sulle cartelle; che c’era quello che barava appena ne aveva l’opportunità, della confusione che si creava dopo la vincita per suddividere il denaro. Mentre rivivevo le scene, sentivo ancora il suono delle monete, una sull’altra a formare una lunga pila al centro del tavolo, che tutti guardavano con avidità. Verso la fine della tombolata, si stava in silenzio in attesa di capire chi fosse il fortunato della vincita. Subito dopo partivano gli sfottò per il vincitore, colpevole di aver ripulito il tavolo. Il gioco si fermava, poi, per una pausa dolciaria di castagne, susamielli, noci, nocciole, tortanetti, cucchiaiate di struffoli grondanti di miele e confettini con scorzette di frutti canditi. C’era sempre da sgranocchiare qualche cantuccino, un biscotto, un torroncino. Le cucine di allora erano ampie, intorno stufe a legna, profumo di alloro sparso sulle zeppole, di zucchero sciolto, di liquori. Le gote dei bambini erano rosse così quelle degli anziani che combattevano il freddo con bicchieri e bicchierini di vino o liquore. C’era sempre qualcuno fuori dal coro che chiedeva una crema caffè o con l’anice, magari lo zio in trasferta per le feste natalizie, il papà che aveva esagerato a pranzo. E tra una ciambella e uno struffolo partiva il racconto di un fatto con puntatina fuori a ritemprarsi. I vetri della stanza dove si giocava erano sempre appannati e il vapore acqueo sulle vetrate faceva staccare ora Babbo Natale di ovatta, ora l’alberello di stoffa o la befanuccia infreddolita. Si era tutti lì. Si scherzava, si rideva, si ripeteva la Smorfia:72, la meraviglia, 23, lo scemo, 77, il diavolo, 87, la vecchia, 90, la paura… C’era chi aspettava il commento al numero più della vincita, di bere un bicchierino con gli altri, raccontarsi e ascoltare gli altri. La tombola al centro del tavolo era un richiamo favoloso. Il fuoco ardeva nella fornace e fuori poteva esserci la bufera o la tormenta, nemmeno ce ne accorgevamo tanto era il calore dentro. A volte il vento passava sotto le fessure delle porte giungendo come pugnali ai piedi, ma subito il calore del fuoco cacciava via quella ventata arrivata all’improvviso. Oggi è un po’ difficile se non anacronistico vivere qualcosa del genere in tempo di Covid. Ma esiste anche il virus della diffidenza, del mollare le tradizioni soppiantate dalle novità, ciò che può sembrare fuori moda. Il virus sembra una macchina da guerra che controlla i nostri avvicinamenti e li classifica. Sembra che dica di soffocare i nostri slanci, l’entusiasmo, l’incontro. Tutto quello di cui abbiamo bisogno ce lo propone il computer che ci immette in realtà virtuali con stanze per ogni bisogno. Ma con la freddezza della tecnologia cadono le emozioni, fatte di scoperte, curiosità, partecipazione. Non ci sono più certe atmosfere di una volta. Tutto scorre tra le braccia del consumismo che ci impone cosa, come, quanto e quando comprare. Quando ho spiegato che il giorno dopo la casa era ancora sotto l’assedio dei fagioli e delle bucce che venivano fuori dai posti più reconditi della casa, c’è stato uno scoppio di risa. Ho raccontato che una volta per inseguire un fagiolo avventuratosi sotto il divano, sono finita col dito su un ferro pungendomi con il sangue che defluiva come un torrente. Allora bandimmo i fagioli ai quali davamo la caccia per lungo tempo. Ma due giorni dopo la busta dei fagioli era di nuovo sul tavolo, al centro, come un ospite di riguardo. E mentre il nonno inforcava gli occhiali per leggere i numeri e posizionarli sul tabellone, già le mani affondavano nella busta per una manciata di legumi da tenere stretti per la giocata, mentre i bambini preferivano le bucce forse per le spruzzate di aroma inconfondibile che davano. Qualcuno usava anche le molliche di pane o piccoli bottoni di madreperla rotti. Si poteva barare benissimo: bastava far rotolare i fagioli, spostare la buccia o far scivolare il bottone velocemente verso il numero appena pronunciato. E giocare diventava l’arte dello stare insieme. Quelle calde sere non sono più tornate, restano scene di un film che ciascuno rivede tra i ricordi. Anche i cani abbaiavano quando qualcuno vinceva: raggiungevano il vincitore girandoci intorno e scodinzolando. E non mancava l’arrivo di Fra’ Cosimo, che trovandoci in un consesso così raccolto, ci invitava subito a pregare con la benedizione finale. Solo dopo onorava la padrona di casa assaggiando zeppole e struffoli.

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