Il ritratto è di Luigi Cinquegrana |
Vico Equense - Lo ricordo un uomo solo, un viandante, con due piedi scalzi che erano tavolette, ingrossati e sofferenti per i lunghi cammini. Lo rivedo con i pantaloni color tabacco, alla pescatora, camicia casual, tanti capelli arruffati, portava sempre qualcosa in mano e, mentre camminava, parlava da solo. Certo che scovare le sue immagini nell’archivio della mia memoria è qualcosa di fenomenale. A volte è lei che viene a noi senza essere evocata da alcun ricordo o forse sono proprio questi ultimi ad avere bisogno di noi. Nunzio era un vagabondo, sbucava da un momento all’altro da qualche angolo di strada e a volte lo temevo per tutto quello che sentivo sul suo conto. Quando raramente me lo trovavo davanti, ed ero sola a percorrere le strade di campagna, correvo più veloce di Forrest Gump, pensando di essere in pericolo. Ma credo che molto spesso lui abbia avuto paura di noi altri. A volte mia nonna gli parlava e lui si mostrava cortese, ossequioso, diceva cose sensate, non si arrabbiava, né diceva parolacce. Lo faceva, invece, quando lo prendevano in giro. Ogni volta che lo vedevo, i miei occhi si posavano sui suoi piedi enormi per i chilometri calpestati, abituati ad ogni tipo di pericolo. Ero invidiosa del suo passeggiare scalzo, i suoi piedi erano per me un senso di libertà. Quelle rare volte che anch’io facevo come lui e me ne andavo scalza, mi accadeva sempre un infortunio: una spina in un lato, un pezzettino di vetro che mi graffiava, del sangue per le screpolature, mentre a lui non succedeva nulla di tutto questo. Mi colpiva la solitudine in cui viveva, il parlare mentre camminava come se gli fosse accanto qualcuno. Una volta lo incontrammo sul versante di montagna a Trina del Monte che veniva verso di noi, fece un sorriso strano, tra il malinconico e il triste. Mi rimase quell’espressione indecifrabile, che tradussi come una sorta di attenzione al suo malessere. Quando passò oltre, dopo aver scambiato quattro parole, chiesi ai nonni il motivo di quel suo vagabondare. Il nonno mi rispose dicendo che era uno che doveva “sbariare”, perdere del tempo a fare cose inutili. Mia nonna fu più precisa affermando che ci si comporta in un certo modo quando non siamo ascoltati o siamo vittime dell’indifferenza altrui. Per me il suo “sbariare” era dettato da qualche sofferenza che si portava dietro. Mal sopportavo a vederlo bersaglio degli altri che lo ritenevano stupido.
Qualche volta ho chiesto alla nonna perché non gli regalasse delle scarpe, credendo, nella mia mente di bambina, che non se lo potesse permettere, ma lei mi rispondeva che non le avrebbe messe mai. Quando lo incontravo, analizzavo il suo sguardo, cercavo i suoi occhi, se non ne era infastidito. Spesso facevo illazioni sul suo isolamento e mi spaventavo a pensare come potesse cambiare in seguito a qualche evento della nostra vita. Il suo vagabondare mi immalinconiva, il fatto che non avesse una meta, un obiettivo, una forza che lo dirigesse. Quando lo vedevo facevo mille domande ai nonni, che non mi davano più di qualche frettolosa risposta tanto per non eludere il discorso. E anche questa era un’ingiustizia, “arronzarmi” per essere ancora piccola e non capire. Ma cosa ne capivano gli altri più di me? Chissà che nella sua leggerezza di vivere non ci fosse più coerenza e forza di tante persone che sembrano percorrere strade “normali” e invece sono solo disadattati. La follia ci accumuna tutti, anche quando crediamo di essere “normali”, siamo solo pazzi all’interno della nostra vita. I parametri della normalità sono alquanto difficili da definire e soprattutto quanto ciascuno di noi vi rientri viste le sue follie. Attraverso le letture di Eugenio Borgna, noto neuropsichiatra, ho potuto apprendere quanto ci sia da imparare da queste persone. Hanno un’anima ferita e non possono comunicare se non c’è qualcuno ad ascoltarli. L’autore illustra nei suoi libri la complessità della vita e del nostro animo e come relazionarci sia oltremodo difficile procurandoci a volte sofferenza, spiegandoci che le ferite dell’anima vengono fuori come meglio ciascuno riesce a fare, talvolta in modi a noi sconosciuti, una sorta di epifania che ci dà la possibilità di espiare paure, tormenti, tensioni. Quello che a noi sembra folle non è altro che la fragilità che ci contraddistingue di cui nessuno è immune. La vera follia è quella di non prendere atto del dolore degli altri, di alcuni tipi di sofferenza che invece impariamo a catalogare, etichettare e crocifiggere. L’ultima immagine che ho di Nunzio è stato allo Scrajo. Ero in macchina con i miei e lui camminava seguendo una traiettoria precisa lungo il ciglio della strada, contro senso, attento a non finire fuori. Quando lo additai, ero bambina, mia madre mi rispose che per lui era normale andare “controvento”, che non era uno per le regole. Mi piacque la parola “controvento”. Significava che lo faceva di proposito per farsi notare e affermare che lui esisteva, c’era, il problema era nostro non volerlo vedere. Nei suoi confronti mi sentivo impotente. Intanto era riuscito a vivere secondo il suo modo di intendere la vita, quando altri, ritenuti normali, non riescono ad essere né coerenti né costruttivi nella loro normalità. Ho sempre pensato che fossimo noi i disadattati a non comprenderlo, noi reputati normali e la sua chiusura solo una incompresa comunicazione, l’altra faccia della ragione. Quando l’altro non ha un codice di comunicazione da condividere con noi, ci toglie la parola e ne crea uno suo, e a quel punto non ci resta che interpretarlo. Comunica con il suo codice che noi definiamo follia, ma è solo una forma di difesa. E siamo così sicuri che sia follia, che non proviamo nemmeno a comprenderla. Ci fa comodo definirla tale, ci pone al riparo da ogni indagine, ci gratifica credendo di esserne al di sopra, ci rende ciechi ed essendo un mondo sconosciuto addirittura ci permettiamo di giocarci. E visto che la nostra incomprensione può esserci già con le persone sane, figuriamoci se ci interessiamo di quelle con qualche forma di sofferenza. Secondo Eugenio Borgna, l’anima non va curata solo con l’applicazione farmacologica, ma facendoci carico delle sue emozioni, delle sue ferite, della sua solitudine, riconoscendole una sua interiorità e dandole voce. “L’isolamento è una solitudine negativa, in cui l’essere umano perde il contatto con il mondo pietrificandosi” afferma Borgna nel suo libro “La solitudine dell’anima” ed è proprio la pietrificazione che blocca l’incontro dell’altro. La solitudine degli altri, qualsiasi ne sia il motivo, è a carico di tutti. Non possiamo eludere l’altrui sofferenza, è lo stesso aspetto della nostra anima. Dobbiamo trovare un canale di comunicazione per tirare fuori l’angoscia prima che pietrifichi. Non è semplice partecipare alla sofferenza degli altri, molto meglio scalzare un tunnel che ci sembra cieco, o non riuscire a prendere in considerazione un mondo che non vogliamo nemmeno conoscere. Solo chi ha avuto sofferenza psichica potrà capire, gli altri, che si reputano sani, non sono altro che folli nel crederlo. Manca tutta la conoscenza dell’umanità che li circonda per potersi definire sani, per stare a contatto con loro, interagire e non perdere la voglia di vivere. Questi muri che innalza chi è affetto da solitudine, sono altissimi, durano anni, e forse anche Nunzio viveva con questo muro dentro. Se avessi la possibilità di un ritorno al passato, lo rincontrerei alla luce dei fatti di oggi, delle mie conoscenze, di quello che ho capito, e proverei a scalfire quel muro, un po’ per volta, senza alcuna pretesa, solo a provarci. In questi casi, come fu per Nunzio, il non capire si traduce in sberleffi, prese in giro e magari appiccicargli l’etichetta dello scemo del paese. Ognuno di noi può esserlo o diventare lo scemo del paese e a volte non per avere un muro dentro, ma fuori, muri che noi non vediamo, non sentiamo e non vogliamo nemmeno individuare e malgrado tutto viviamo come se fossimo gli unici al mondo, dove la nostra individualità assume contorni di onnipotenza e dove crediamo di non aver bisogno di nessuno. E’ questa la follia di oggi, la più difficile da scardinare, dove non bastano psichiatria, psicologia, farmacologia, filosofia per ammettere la nostra fragilità comunque e sempre, pur nella nostra normalità.
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