mercoledì 22 febbraio 2017

Le interviste impossibili: Luigi Serio, personaggio illustre di Massaquano

Massaquano
di Filomena Baratto

Vico Equense - Luigi Serio nacque a Massaquano, frazione di Vico Equense, nel 1744. Ben presto venne a far parte di quel folto gruppo di nobili che costituiva il Circolo culturale della Napoli fine secolo XVIII, intorno alla corte borbonica. Dalle pagine che sto leggendo sulla sua vita, lo vedo emergere quasi come Farinata degli Uberti nel X canto dell’Inferno quando dice: “Volgiti! Che fai? Vedi là Farinata che s’è dritto: da la cintola in su tutto’l vedrai”. Là, Farinata mal sostava nel girone degli eretici, qui, Luigi Serio, quasi si mostra desideroso di uscire dalle pagine per raccontarsi. Posso farle qualche domanda? “Finalmente qualcuno che mi scova tra queste pagine polverose e buie. Avrete sicuramente tanta tecnologia, voi posteri, ma studiare sulle carte ha un altro fascino. Venirmi a trovare qui è già un bel passo. Una volta c’era una maggiore sensibilità alla riflessione, all’arte, alla poesia. Il pensiero illuminava ogni cosa”. Non a caso era il secolo dei Lumi, dal 1688 al 1789, anno della Rivoluzione Francese. Lei ha vissuto in un’ epoca di accesi dibattiti sfociati poi nella Rivoluzione napoletana del 1799, periodo di grande fermento politico e culturale, non crede? “Tempo di allenamento mentale, di passioni, di lezioni, una vera palestra di idee. Napoli, ancora una volta, divenne centro culturale di menti ingegnose che diedero vita a trattati di economia, di storia, di politica”. Casa si prova a passare da un piccolo centro di provincia a una grande città come Napoli? “Ti porti dietro quel piccolo mondo come un serbatoio di vita, dove ogni momento vissuto diventa un esempio a cui tendi continuamente, anche quando la città ti divora. Massaquano, così raccolta, semplice comunità, mi ha reso alla grande Napoli. Sono questi mondi a misura d’uomo, con una loro vita di tutti i giorni a far crescere dentro il desiderio di grandi ideali o ambiziosi disegni su cui costruire”.

Quale educazione ha ricevuto? “Solide basi, un’umanità ricca e la voglia di progredire così come l’ambizione di fare sempre meglio. Ho assecondato anche i miei, la famiglia. Ho seguito la volontà paterna che mi voleva avvocato e poi fa sempre bene averne uno in famiglia”. Se così fosse, in una famiglia ci vorrebbe un professionista per ogni disciplina. So che nel 1777 conquistò la cattedra di Eloquenza all’Università di Napoli, istituita qui per la prima volta, e successivamente divenne Poeta di Corte. Sarà stato contento suo padre con un figlio così? “Tutti i figli dovrebbero assecondare i padri. Il mio aveva riposto grandi speranze in me ed io non l’ho deluso. Un eccessivo accanimento nel pretendere dai figli di esercitare la professione in cui più si crede, può anche sortire l’effetto contrario. Nel mio caso, sono stato fortunato. I miei hanno fatto in modo che facessi quello in cui credevo di essere portato”. Si dice che lei si sia servito del suo facile verso per affabulare la corte ed entrare nelle grazie del monarca. “Bisogna sapersi relazionare con gli altri e al mio tempo la corte napoletana era quello che di meglio si potesse frequentare”. Si dice anche che questo le abbia permesso di entrare all’Università conquistando la cattedra di eloquenza. “Il mio Foro era la corte, là c’erano motivi sufficienti per imbastire arringhe, la vis non mi mancava!” Quella polemica! “E come nasce l’eloquenza se non in ambienti polemici e contrastanti? Abbellire e ornare le parole, suscitare le reazioni desiderate nell’uditorio ha valore e importanza se bisogna persuadere e discutere. La parola è tutto, attraverso di essa si costruiscono i fatti. Come sarebbe emerso Cicerone se nella sua età non ci fossero state le più grandi cause da dirimere? Ogni sua orazione è stato un successo. Di quale forza si deve vestire un discorso per trovare il consenso del pubblico? In quel tempo l’oratoria fu, prima di tutto, forza di contrastare e voglia di vincere sui fatti con le parole. In seguito diventò mero esercizio per mantenersi in allenamento”. Lei è stato favorito dalla corte borbonica a cui è rimasto legato fino alla fine del 1793. Poi è successo qualcosa che l’ha contrariata, cosa? “Le corti sono famiglie allargate dove avvengono i peggiori oltraggi. Re Ferdinando mi ha oltraggiato ingiustamente e tutto il mio devoto impegno per lui si è frantumato. Accade nelle migliori famiglie”. Eppure lei non compare tra i perseguitati e indiziati nei processi politici di allora, come mai, se aveva rotto ogni rapporto col re? “Ci mancava anche questo. Spesso le guerre si fanno guardandosi solo negli occhi e leggendoci disapprovazioni peggiori delle dichiarazioni di guerra. Sa cosa diceva Tommaso Moro? Non c’è trattato migliore di quello che nasce nel cuore, altro che siglare carte!” Lo sdegno in lei montò soprattutto nell’opera Il Ragionamento del Popolo, dove esortava i giovani a fare tesoro dei concetti politici di quella realtà per trovare la giusta strada verso la Repubblica. Una sorta di vademecum del perfetto repubblicano. “Il popolo era in stato di schiavitù, non se ne poteva più e idee nuove circolavano per tutto l’ambiente intorno al monarca. Il popolo napoletano ha avuto grande coraggio in questo”. Ma tutto a caro prezzo. Sono molti quelli che hanno perso la vita in questo sogno di voler cambiare le sorti del popolo…anche lei l’ha persa per questo. “La storia si legge al passato, ma la si vive al presente. Ora voi avete modo di criticare dettagliatamente quello che allora era ancora in una nebulosa. E poi, se anche la storia è maestra di vita, le condizioni in cui avvengono i fatti sono sempre nuove e solo dopo secoli si apprendono le lezioni, quando si possono leggere meglio gli eventi. Anch’io, come tanti illustri napoletani, ho trovato la morte in quel 1799”. Il suo impegno universitario vide, nel 1791, la pubblicazione delle Istituzioni dell’eloquenza e della poesia italiana in 4 volumi, intorno alla grammatica, al gusto delle metafore e figure, alla poesia, dico bene? “Intanto non ebbi modo di pubblicarlo, tanto che i posteri hanno creduto che fosse andata perduta. So, da chi poi è venuto quassù, il napoletano Giacinto Corelli, che pubblicò l’opera nel 1810 dicendo di aver usufruito di mie lezioni. Ma quando ci siamo incontrati, in questa sede, gli ho riferito che non doveva cedere alla tentazione di prendersi il merito. Abbiamo risolto la querelle. E’ un testo completo, ricco di citazioni, di esempi, di figure retoriche, di poeti e prosatori ed esempi di metafore”. C’è un altro scritto suo, in dialetto, lo Sberleffo, contro il Galiani circa la letteratura dialettale napoletana. “Fu scritta proprio per coloro che ripiegavano su una lingua ancora ricca di barocchismi, fredda e inespressiva, per contro un nuovo modo di parlare fatto di figure che avessero più attinenza con l’eloquio presente”. Si dice di lei che, oltre alla vis polemica, abbia avuto la capacità di sostenere ritmi stressanti e, ancor di più, di usare il verso meglio della spada! “Questa terra ci rende forti, entusiasti e anche polemici. La polemica fa parte di noi, e polemico dal greco polemikòs, è chi combatte ed è guerresco. La polemica, sotto certi aspetti, è positiva se impostata su un piano di ascolto da entrambi i lati. Troppa polemica nuoce. In medio stat virtus. Mi reputo un polemico medio”. Max Weber, sociologo, nato dopo di lei, nel 1864, parla dell’efficacia del conflitto in quanto apporta cambiamenti sociali. E’ d’accordo? “Il conflitto è un dialogo degenerato che ha in sé la forza di capovolgere le situazioni. Col conflitto ci si intende per forza, le parti devono ascoltarsi in mezzo al caos e questa precarietà porta necessariamente a comprendersi. Per finire il conflitto ha bisogno per forza dell’ascolto”. Lei ebbe l’incarico di revisore teatrale oltre che Poeta di corte, dal quale fu destituito nel 1795. “Il Re aveva ceduto alle pressioni di uomini ai quali non piaceva il mio operato per aver vietato loro molto spesso le rappresentazioni. Un Re che si lascia trasportare da piccoli uomini incapaci anche di fare il loro mestiere! Questo non gliel’ho perdonato”. Vorrei sapere qualcosa in più dei versi indirizzati a Gaetano Cioffi, primo cittadino di Vico Equense al suo tempo. Come sono andati i fatti? “Lei si riferisce alla Cioffeide, sì, sonetti diretti al sindaco della mia città. La Cioffeide prende il nome del sindaco per sbeffeggiarlo e in esso compare un còleus, coglione, in ogni verso, fu una mia trovata per vendicarmi. Ma come avete avuto questa mia opera se non fu pubblicata e girò clandestina tra gli amici?” Il carteggio con la sua opera è stato rinvenuto nella Biblioteca Nazionale dal professore Raffaele Giglio della Facoltà di Lettere all’Università Federico II di Napoli. Diciamo pure che se oggi riparliamo di lei è anche grazie a questo carteggio riscoperto. “E’ scritta in terzine e quartine, un’opera indirizzata al sindaco. Sono versi scritti tra il 1774 e 1780 quando a Vico era sindaco il Cioffi. Fu accusato di aver speso ingenti somme di ducati per la festa di San Ciro e San Giovanni e per questo fu messo sotto accusa. Fu condannato a pagare circa 300 ducati, la metà dell’ammanco prodotto da lui dalle casse del comune. Scrissi questi versi per come mi aveva trattato dopo avermi additato come un donnaiolo e portato a processo, in seguito al quale non volle darmi la mano di sua sorella. Era reo di volermi mandare in galera, di non saper amministrare e di avermi rifiutato la mano di sua sorella”. Diciamo che non è stato proprio un esempio da imitare! E qui ritorna la sua vis polemica e anche un po’ di vendetta, se mi permette. “Mi sono vendicato con lo strumento che avevo a mia disposizione: la penna. Con la penna costruiamo mondi inesistenti ma prendiamo spunto dal mondo di nostra conoscenza. Noi siamo quello che riusciamo a costruire con le nostre parole!” Mi sembra di sentire Ludwing Wittgenstein! "Non conosco costui, ma un uomo di lettere non è poi un còleus, e non mi faccia ripetere il significato qui. Un uomo di lettere deve poter interloquire con tutti e con ciascuno con il suo idioma." Se tornasse indietro cosa non rifarebbe? "Rifarei tutto quello che ho fatto." Allora tra gli aspetti caratteriali mettiamo anche pienamente convinto di ciò che ha fatto, così come medio polemico e vendicativo. "Adesso non esageriamo, sono un uomo oltre al professore, con tutti i miei difetti e le mie passioni. Se vuole conoscere gli uomini, parta dai loro difetti, dai loro vizi, e non si meravigli se anch’io ho i miei, sono quelle ombre che danno maggiore luce ai pregi." Cosa resta di quel bambino nato a Massaquano? "Ancora adesso mi affaccio dal Paradiso e mi chiedo quale sia il più bello: quello dove sono nato o dove mi trovo ora. Il luogo di nascita influisce sul nostro carattere e il nostro modo di essere. E’ stato il luogo che mi ha forgiato, mi ha tenuto e mi ha coltivato. Quando guardo dall’alto la Cupola di San Giovanni Battista e con lo sguardo accompagno le colline fino al mare, ho tanta nostalgia e vorrei tornarci di nuovo. Ogni mattina, appena mi alzo, apro la finestra e guardo giù. Provo a mettere su quattro versi per l’aria, per il vento e il tempo che non mi ha tolto dall’animo i primi versi che misi su carta."  Ecco, mi mancava l’ultimo tassello al suo carattere, l’ironia. Allora vale per ogni massaquanese che si rispetti: testardo, ironico, vendicativo, tenace. La ringrazio per essere uscito fuori da queste carte a soddisfare qualche mia curiosità. Vendicativo non direi…piuttosto uno che non dimentica, ecco, scriva così!

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