Benedetto Migliaccio (nella foto) è avvocato abilitato al patrocinio innanzi la Corte di Cassazione e le altre giurisdizioni superiori; esperto in diritto societario e commerciale, assistenza alle imprese e materie collegate. Ha esperienze primarie in materia antimafia, anticamorra ed antiracket. La professione lo ha portato in Svizzera, Germania, Lussemburgo ed altri paesi europei e negli Stati Uniti. A Napoli è presidente dell’Accademia Filangieri Della Porta e della commissione cultura del Club Rotary Napoli. A Ischia è presidente dell’Isola delle Torri, che organizza la kermesse di architettura e paesaggi “Torri in Festa”. È vice sindaco con delega all’Urbanistica a Vico Equense. «Sono nato per caso a casa di mio nonno materno, a Portico, provincia di Caserta; i medici della Ruesch dissero che ci voleva tempo prima del parto e mamma andò a fare visita ai suoi. Durante la notte venni alla luce assistito dalla “mammana”. Ho vissuto da sempre a Vico Equense, nel suo paesaggio; secondo il grande pae saggista Roberto Pane Vico, con Massa Lubrense, genera la celebrata bellezza dei paesaggi della costa sorrentina. Vico fu il punto d’incontro della famiglia delle bisnonne paterne, entrambe nobili vicane, e dei bisnonni ischitani, esponenti della borghesia illuminata e liberale, fieramente antiborbonica. I Migliaccio approdarono sull’Isola al seguito di Alfonso d’Aragona, e ci rimasero fino al 1914 quando mio nonno Benedetto, figlio dell’avvocato don Angelo e anch’egli sindaco di Barano, portò la famiglia a Vico, paese della sua mamma e della madre di sua moglie, e non tornò più a Ischia rompendo una storia secolare».
Perché? «Pare che una notte verso la sua carrozza partì una schioppettata a tradimento ispirata da politici dell’ opposta fazione. Mio nonno da sindaco lasciò l’Isola per non tornarci mai più. A Vico, da irriducibile liberale, durante il fascismo gli portarono via tutto il patrimonio. Non demorse, e fece parte di quel manipolo di intellettuali che aiutò Benedetto Croce a sfuggire alla retata nazista che doveva portarlo in Germania. Ha pagato per le sue idee, di lui sono orgogliosissimo». Ha trascorso tutta l’infanzia e l’adolescenza nella penisola sorrentina. Che ricordo ha di quel periodo? «Ho vissuto momenti magici, i filoni in Moto Morini fino a Positano, i primi costumi di stoffa, le camicie ed i pantalacci a righe, le passeggiate in barca fino a Capri, le pizze a metro, il giardino di “Gigino”. Quella di Vico è una pizza “democratica e popolare” perché essendo al metro tutti, indipendentemente dai soldi in tasca, possono sedere assieme e prender ne un pezzo, è partecipativa. Diversamente, quella napoletana si serve ciascuna nel suo piatto, la si mangia da soli, di staccati, è “aristocratica”». E gli studi? «Non li trascuravo mai, con genitori vigili e severi. Feci le secondarie al liceo Virgilio Marone di Meta. Lì c’era spazio an che per lo sport e quello di moda in penisola era il volley. Vincemmo il campiona to studentesco battendo alle final four il Bixio, istituto Nautico di Piano, il liceo Umberto e l’Istituto Righi. La finale fu memorabile, c’erano tutte le scuole allo stadio Collana, al Vomero». Nipote e figlio d’arte, non ebbe dubbi e si iscrisse a giurisprudenza per diventare avvocato. «Papà non voleva seguissi le sue orme, ma non gli diedi ascolto. Venne a mancare quando non ero ancora laureato e da universitario cominciai a curare piccole pratiche per suoi clienti affezionati. Poi da giovane avvocato incontrai Giovanna, la donna della mia vita, e fu la svolta». Perché? «Era ed è una donna di bellezza straordinaria, alta e bionda; studiava matematica alla Federico II ove oggi è ordinaria di Geometria. Con estremo pragmatismo mi disse: “ma che vita vuoi avere, quella di avvocato di paese? Devi venire in città”. Le sue parole fecero crollare le mie certezze: raccontare alle ragazze il mare, la bellezza, gli odori e i sapori della mia terra, l’incanto di Capri che da Punta del la Campanella si tocca con un dito. Le dissi, per amore: obbedisco». Dove andò? «Ebbi la fortuna di entrare allo studio del professore Gustavo Minervini. Le segretarie mi schernivano: “vieni dal paese, da Vico Equense; porti le mozzarelle?”. Agli inizi fu dura, ma acquisii rispetto giorno dopo giorno. Fu una scuola straordinaria, basti citare i nomi dello studio: non solo il professore Minervini ma anche l’avvocato Ennio Magrì e il professore Michele Sandulli; Alberto Lucarelli era il mio compagno di stanza». Grandi menti. Cosa hanno rappresentato per lei? «Mi hanno catapultato da una realtà di paese ad una dimensione inimmaginabile. Gustavo Minervini aveva un’ intelligenza fulminea, omnicomprensiva e la capacità in poche parole di esprimere con etti che per altri necessitano di pagine intere. Michele Sandulli era un uomo delicato e brillante, con una penna superiore, che faceva innamorare; lo scelsi come compare d’anello. Ennio Magrì era la brillantezza fatta persona. Ricordando quegli anni, nemmeno riesco a capacitarmi di essere con lui, e presidente della commissione cultura, al Club Rotary Napoli 1924, il decano del Distretto». Quanto tempo è rimasto con loro? «Quattro anni. Poi ho voluto fortemente realizzare il sogno e cioè lo Studio Migliaccio, aperto a Napoli in via del Rione Sirignano. Evoluzione e continuità della strada tracciata dal mio bisnonno Angelo nel 1820, da mio nonno materno Francesco Piccirillo, accademico di Venezia e Presidente dell’Ordine a Santa Maria Capua Vetere, e da mio padre a Vico. Nello stesso periodo ho sposato Giovanna ed è nata Benedetta». Sua moglie ha avuto un ruolo determinante anche in una grande avventura che la vede protagonista. Ce ne parla? «Giovanna ha invertito la storia, e contraddetto mio nonno andato via da Ischia nel 1914. Nel 1980 avevo ereditato la tenuta di famiglia, la più grande di tutta l’isola, che nessuno voleva per come era ridotta. Per vent’ anni nemmeno l’ ho vi sitata, fuggendo dai ricordi del passato illustre. Nel 1990 Giovanna mi convinse ad andare a cercare i parenti che erano sull’isola; ma fuggimmo via delusi perché tutto era in rovina, con rozze contadine a far da padrone. Nel gennaio del 1998 mi fece tornare, faceva freddo e sotto una pioggia fitta guardammo con tristezza la casa padronale ridotta a rudere. Stavamo per andare via per la seconda volta quando un raggio di sole squarciò la nebbia, e la condensa dei caldi vapori termali dei Maronti. Tutt’intorno cambiarono i colori, comparve Sant’Angelo e di fronte Capri in tutta la fascinosa bellezza. Giovanna disse: “Vuoi davvero rinunciare a questo?”. Quelle parole diedero inizio alla splendida avventura che ha riportato la tenuta allo splendore che merita». Ha recuperato anche il passato enologico. «La Tenuta produceva uno dei migliori vini dell’isola e nel 1870 ricevette la Medaglia d’Onore al concorso enologico nazionale. Poi fu tutto abbandonato cento anni fa. Abbiamo ricostruito la storia e ritrovato documenti, tra cui il testamento del Conte Mellusi dell’anno 1034 che pro va che la tenuta era già vigneto mille an ni fa; e poi comprato carte geografiche e libri antichi tra cui quello di Giulio Jasolino del 1588. L’enologo Andrea D’Ambra, dell’omonima casa vinicola, consultati gli appunti dei suoi antenati si associò subito all’impresa di ripiantare i vitigni, all’idea di trarre un grande vino da mille anni di storia. Ad oggi ho recuperato circa sette ettari e nel 2014 fu presentata a la Biblioteca di Napoli la “Vigna dei Mille Anni”, un grande “rosso da affinamento” in terra di “bianchi”. Non era stato facile, prima di piantare spedimmo i campioni della zolla fertile all’Università del vino di Bordeaux, ma ricevemmo un report negativo. L’insistenza e la caparbietà di un enologo toscano, che collaborava con noi, ottenne una seconda analisi fatta molto in profondità, con un carotaggio da un metro. Il risultato fu eclatante ed i francesi quasi si scusarono: il terreno profondo si rivelò ricco di zeolite, un grande accumulatore di nutrienti che funge da stabilizzatore idrotermico. La tenuta poi gode del lunghissimo fotoperiodo, dell’insolazione e del particolare microclima dei Maronti che, con i vapori delle sue fumarole, rende “miracolosamente” fertile il terreno dall’aspetto arido e secco. L’incontro con la direttrice dei Giardini La Mortella, la cara Alessandra Vinciguerra, ha consentito e con sente ancora di realizzare nella Tenuta un connubio tra vigneti, palme e rare piante tropicali. Siamo giunti sulle pagine dei più importanti giornali, ed in specie due riviste patinate newyorchesi che hanno fatto recensioni straordinarie sul vino e sulla tenuta». È il presidente dell’Accademia Filangieri Della Porta. Qual è la sua mission? «Dagli antenati ho ereditato la cultura liberale ed i principi di Gaetano Filangieri, simbolo dell’illuminismo “napoletano” che affogò nel sangue dei martiri del 1799. L’Accademia intende promuovere studi su epoche che, in particolare a Napoli e Vico dove ha sedi, ma anche in altri centri del Meridione, hanno generato cenacoli e pensieri fondamentali nel formare la contemporanea cultura europea. La forza delle idee che nacquero in questi luoghi ancora vive in diverse parti del mondo. Tra Gaetano Filangieri e Benjamin Franklin ci fu un rapporto epistolare che affinò gli ideali della Costituzione Americana. Con l’ultima lettera a Filangieri - il 14 ottobre 1787 - Franklin gli spedì una copia della Costituzione degli Stati Uniti come segno di riconoscenza per “il preziosissimo lavoro”; solo un’altra persona ebbe tale privilegio, Thomas Jefferson (uno dei quattro padri della patria americana) di stanza a Parigi per difendere dagli inglesi la sua patria». E la nostra Carta Costituzionale? «Non attinge a quei principi perché furo no annegati nel sangue e spezzati dalla controrivoluzione sanfedista del cardinale Ruffo. Sarebbero potuti rinascere nel periodo Murattiano, ma i francesi sono spocchiosi e lasciarono sepolte quelle idee; non avrebbero mai rivalutato i no stri eroi, non ci hanno mai pensato e non lo hanno mai fatto. E poi tra l’Illuminismo italiano quello francese corrono differenze troppo profonde. Seguì poi la nuova controrivoluzione, e seppellì i Martiri del ’99 con la damnatio memoriae. Successivamente uno Stato a guida sabauda non poteva mai riconoscere principi nati nelle terre che erano state invase. Per non parlare del fascismo. Infine si è avuta una Repubblica a trazione del nord, ed una carta costituzionale che fonde ideali cattolici e marxisti, troppo lontani dai principi del Filangieri. Solo l’Europa, oggi, riconosce e tutela quei principi, ma è storia ancor lunga. È la nazione napoletana a doversi ritrovare, espiare finalmente il sangue dei patrioti rivalutando quelle idee universali»
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