venerdì 6 ottobre 2017

Tra abusivismo e falsa coscienza ecologica

Bruno Discepolo
Fonte: Bruno Discepolo da Il Mattino 

Nell'Italia della tante aspettative ma anche dalle più numero se disillusioni, vi è come una chimera che alimenta qualcosa di più di una semplice speranza, una sorta di catarsi generale ottenuta per il tramite di un capillare ed esteso programma di demolizione degli edifici abusivi Sia chiaro, per molti si tratta di un sincero auspicio di ripristino di minime condizioni di giustizia ed equità accompagnate dalla soddisfazione del recupero di ambienti e paesaggi violati. Ma è anche, l'ostinazione con la quale molti si rifiutano di prendere atto della impraticabilità di una soluzione così radicale, l'espressione di una presunta integrità morale che sconfina, più spesso, nella complicità nel coprire le responsabilità diffuse. In sintesi la falsa coscienza del nostro Paese nei confronti della più generale devastazione dei territori, nella manomissione che ha accompagnato per decenni le nostre città ovvero la mancata cura e difesa dei versanti e delle coste. La questione è ritornata di attualità, con la discussione in sede parlamentare del disegno di legge Falanga, proprio in ordine ai criteri di priorità nelle procedure di esecuzione degli abbattimenti per immobili con sentenze passate in giudicato. Ma anche dopo la puntuale inchiesta di Lorenzo Iuliano, pubblicata ieri su queste pagine, in merito ai diversi costi previsti per le demolizioni, dai comuni o dalle province. Diverse facce dello stesso problema e di una questione la cui origine si perde lontano nel tempo. Ma che ora, non a caso in coincidenza della conclusione dei procedimenti giudiziari dopo anni o decenni di rinvii e temporeggiamenti, non consente più ulteriori dilazioni e reclama una assunzione chiara di responsabilità, a partire dalla politica e dal legislatore. E che, al momento, rischia ancora una volta di non arrivare.
 
Onestà intellettuale vorrebbe che, fuori da proclami teorici e azioni propagandistiche, ci si rendesse conto che i numeri e le quantità in gioco non consentono, nemmeno su di un piano puramente astratto, di immaginare che si dia corso alla demolizione di tutti gli immobili per i quali è stato già rifiutato il condono o lo sarà, una volta esitate le istanze che giacciono presso gli uffici tecnici di 8.000 comuni italiani. Le motivazioni sono note, e non attengono ne ad orientamenti politici, a posizioni ideologiche o ad una minore o maggiore sensibilità ambientale: semplicemente il buon senso ed una dose di sufficiente pragmatismo spingono verso una riconsiderazione sulle soluzioni da adottare. Vi sono problemi economici, in termini di costì di demolizione, che i comuni non possono anticipare o che difficilmente riusciranno a recuperare, di conferimento, oltre che di costi, dei rifiuti che si genereranno e di sistemazione delle aree do po’ gli abbattimenti, per non creare degrado su degrado. Infine si determineranno tensioni sociali ed oneri, sempre per gli Enti locali, per l'emergenza derivante dalle migliaia di senza tetto che ne scaturiranno, una volta demolite le loro abitazioni. Tutto questo dovrebbe far riflettere quanti, a dispetto di ogni diversa posizione o richiesta di concretezza, continueranno ad immaginare che l'unica via di uscita, per un problema che rischia di incancrenirsi, irrisolto come è dopo oltre 30 anni, sia solo quello di rivendicare, sempre e dovunque, l'abbattimento di tutti gli immobili. Da più parti è venuta la pressante richiesta di una soluzione che sia m grado di separare i casi per i quali non vi è alcuna possibilità di sanare gli abusi compiuti, per la natura delle aree in cui sono ricompresi o per i rischi connessi, o ancora per la finalità esclusivamente speculativa o addirittura per il tipo di capitali o soggetti autori dell'illecito, da tanti altri che invece, anche per il tempo trascorso e le stesse trasformazioni intervenute in quei territori, possono essere oggi riconsiderati. Magari dentro piani urbanistici di recupero e rigenerazione urbana, con prescrizioni per interventi di mitigazione, oltre che di conformazione agli standard urbanistici e dunque con la realizzazione di infrastrutture primarie e secondarie. Un passaggio di categoria, da non sanabile a legittimo, che comporterebbe, nei casi m cui ciò fosse possibile, oltre che la chiusura di una ferita aperta da decenni, la prosperava per il comune di incassare opere e denaro, invece che di doverne spendere di suo, cioè dei cittadini, per le demolizioni. Ovvero, come sembra di capire, per alimentare ulteriori pratiche e commerci dai contorni incerti. Sulla questione delle demolizioni si è aperta un'ulteriore frattura, che divide opinioni, coscienze e interessi, nel Paese. Compito della politica sarebbe quello di ricucire lo strappo, di far dialogare le parti contrapposte, di trovare una sintesi, ma mai come in questo caso sembra proprio che l'unica azione messa in campo si la fuga da ogni responsabilità e decisione.

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