di Filomena BarattoIl primo tassista in coda, all’uscita del Salone, vedendomi stanca e accaldata, con due bottiglie d’acqua fredda in mano, due zaini al seguito, giacca di pelle, che non c’entrava niente con i 32 gradi fuori, mi ha aperto la portiera. Appena in macchina, ho buttato tutto sul sedile e mi sono appoggiata al finestrino. L’aria mi rendeva il favore di spostare le ciocche di capelli che si attaccavano alla mascherina e agli occhiali. Ho notato subito che l’abitacolo era videosorvegliato e ho pensato che, se il tassista avesse rivisto il video, si sarebbe fatto delle risate: davo l’impressione di una sopravvissuta. Ho cercato di mantenere il controllo aggiustando le ciocche, gli occhiali, le bottiglie, gli zaini e facendo ordine. Tra me e me ridevo sotto la mascherina. Il tassista ha sentenziato che il nostro paese rientra ormai tra quelli tropicali. Ho aggiunto che il clima è una questione fondamentale per la nostra vita sul pianeta. Ha annuito. Poi ha cominciato a lamentarsi del fatto che Torino, se non fosse per tre o quattro eventi importanti in un anno, non avrebbe alcuna attrattiva per i turisti. “Tutta colpa della Fiat, gli Agnelli ne hanno fatto una piccola Detroit. Come se a Torino ci fossero solo le auto”. Gli ricordo che è pur sempre stata la capitale d’Italia. “Ma la storia non può basarsi sul ricordo dei Savoia, aggiunge, nessuno se li ricorda, o meglio nessuno conosce così bene la storia da ricordare il passato di Torino”.
Continuo dicendo che è una città ricca di cultura, centro politico di un tempo, che ha avuto personaggi storici come Camillo Benso, Conte di Cavour, che pur parlando solo francese e non essendo mai stato al sud, creò le basi per l’unità d’Italia. Insisteva nel dire: “Torino è solo una città fumosa, rispetto a Milano non è che un paesello, non avendo la sua forza economica. La colpa di Torino è la sua posizione geografica: se si trovasse in un asse centrale come Milano, dove sei obbligato a passarci, sarebbe più interessante. Qui invece ci devi venire di proposito”. Portato a termine il discorso, mi ha chiesto del mio passaggio al Salone. Gli ho parlato del mio romanzo sui migranti. Ha definito l’argomento molto attuale: i pregiudizi verso lo straniero non finiranno mai. La conversazione si è fatta intrigante. Intanto ho lasciato cadere sul sedile le bottiglie, dimentica dell’ordine fatto poco prima e mi sono posta in posizione di ascolto. “Sa, molti di quelli che abitano qui sono di origini meridionali, venuti su dal dopoguerra fino agli anni settanta, e la Fiat ha fatto da traino”. Ha poi asserito che i maggiori oppositori dei meridionali sono proprio quelli giunti al nord nel periodo del boom economico. Gli ho chiesto il motivo dei pregiudizi nei confronti dei meridionali, che ancora si avvertono, se discendono a loro volta da gente del sud. Mi ha risposto che tutti quelli che vanno a vivere su, sia meridionali che gente di altri paesi, acquisiscono diritti che temono di perdere e guardano gli altri migranti come potenziali usurpatori. Difendono strenuamente quello che hanno guadagnato con difficoltà. Guidava e parlava in modo appassionato e nel mentre gesticolava. Mi è sorto il dubbio che fosse anche lui un meridionale. Ho continuato ad ascoltare. “Ma così non va bene, ha ripreso, bisogna capire che non è più tempo di pensare solo a se stessi, bisogna pensare alla collettività”. Gli ricordo che Machiavelli affermava la stessa cosa: il bene individuale viene dopo aver assicurato il bene comune, una conditio sine qua non. Mi confessa che sua madre è di Barletta (Puglia) e suo padre di Asti (Piemonte) e che ogni Natale si trova a tavola tra due famiglie, che pur rispettandosi formalmente, si tengono a distanza. Il nonno di Asti storceva il naso davanti al pranzo barlettano e lo stesso la mamma davanti alle pietanze piemontesi. “Poverini, mi diceva, sono anni che mangiano insieme, ma non si sono stemperate le insofferenze”. Mi confessa poi che ha provato a unire, almeno in cucina, i gusti e le ricette di famiglia contaminando i piatti piemontesi con quelli pugliesi ma con scarsi risultati. Ad ogni riunione di famiglia emerge la disputa del piatto: qual è il più pregiato, il più sostanzioso, il più presentabile. “E non oso pensare cosa succederebbe se ci inoltrassimo in altri temi”, ha detto l’uomo consapevole di non essere mai riuscito a limare le differenze. La paura principale è la diversità dell’altro, ciò che non comprendiamo diventa estraneo. Che speranze abbiamo di integrare gli stranieri se nello stesso paese restano ancora pregiudizi tra nord e sud? ci chiediamo entrambi. Mi ha raccontato di quando sua madre si è trasferita a Torino, non volevano affittarle la casa. L’ha avuta per la mediazione di una sua amica che l’ha presentata come una brava ragazza. Secondo la logica giù sono tutti camorristi e mafiosi”. L’ho corretto dicendo che scorreva sangue del sud anche nelle sue vene e di conseguenza doveva includersi nel discorso. Ha sorriso e si è scusato per l’imperdonabile errore da parte sua. “Sa, qui non c’è un dialetto, la maggior parte di noi non si sente nè pienamente torinese e nemmeno meridionale, non conosce nè il dialetto di provenienza nè quello di adozione. E’ per questo che parliamo solo l’italiano. Bella fregatura” ha affermato dispiaciuto. Mi spiegava che il dialetto non è solo una lingua, è un vissuto che penetra dentro e ci dà un’identità. “In questo, ha continuato, i Francesi sono più avanti di noi, hanno superato i pregiudizi che invece ci attanagliano, ma nelle seconde generazioni viene fuori la verità e i pregiudizi non superati ritornano. E per questo motivo, se non si superano le discriminazioni subite, fanno attentati”. A questo punto gli faccio notare che allora i Francesi non stanno meglio di noi. “La ruggine che non va via, finisce per mangiare il ferro. Le situazioni vanno affrontate. Il pregiudizio è la ruggine della società”. Arrivati a destinazione abbiamo continuato a parlare. Ha chiesto di avere una copia del mio romanzo. Gli ho rivolto un’ultima domanda: “Le manca ogni tanto ciò che ha lasciato al sud?” Mi ha risposto che non potrebbe vivere a Torino senza quella parte che affonda ancora laggiù. Ci siamo lasciati come vecchi amici. Appena salita in camera la voglia di scrivere ciò che aveva detto, è stata più forte della stanchezza.
Al ritorno ho preso il taxi. Ho scambiato qualche parola con il tassista e devo dire che ha fatto un’analisi precisa di Torino in questo periodo di Salone internazionale del Libro ed Eurovision. Si lamentava del fatto che oltre queste manifestazioni Torino è un po’ morta. La Fiat nel tempo ha reso la città una piccola Detroit come se fosse il regno solo delle macchine. Ma è una città fumosa, anche se tranquilla e a misura d’uomo. Gli dico che Torino assomiglia a una signora perbene, elegante, che è pur stata la capitale d’Italia e concorda con me. Ma poi ribadisce che è vero che ci sono stati i Savoia, ma salvo la bella architettura della città, Torino conta poco più di un milione di abitanti e rispetto a Milano sembra un paese. Non ha la ricchezza di Milano. Poi mi dice che fa il sindacalista dei tassisti e sa bene che Torino è nata, in seconde generazioni, dalle migrazioni dal sud durante il boom economico. La Fiat ha attirato con sè gran parte delle persone del sud ha per dirla con una parola di repubblica, trasferirsi al nord. Gli faccio notare che molti della nuova generazione del nord è formata da persone emigrate dal sud nei tempi d’oro dello sviluppo economico e gli chiedo anche perchè le popolazioni del nord ce l’hanno col sud se esse stesse sono in buona parte migranti e provengono dal sud. Mi ha risposto che hanno paura di perdere dei pribvilegi acquisiti e che se vengono altri da qualsisasi paese possono perdere ciò che hanno conquistato. Ma sa che non è così. Di rimando gli dico che aveva ragione Machiavelli quando affermava che per fare il bene individuale bisogna pensare prima al bene comune. Pur essendo d’accordo con me su questo punto, ha affermato con una persola presa da un articolo da repubblica che sianmo nella egocultura: ognuno pensa per sè. E che nelle prossime elezioni vincerà la Meloni poichè rispecchia la pancia del popolo. Per lui la sinistra non c’è più, vige la legge del più valido. Ci siamo portati da qui sul clima. Ho affermato che questo è l’argomento più importante del momento. Appena sono salita ho chiesto a quanti gradi stavamo e lui ha risposto 31 e che siamo diventati un paese tropicale. Ma ritornando alla questione precedente, gli ho raccontato del ragazzo venuto dal mare quando mi ha detto di essere per meta di Barletta e per metà piemontese. Allora gli ho raccontatodella storia del mio romanzo, che è ambientato in Puglia e mi sono soffermata, dopo quello che avevamo raccontato, al discorso pregiudizio. Mi ha riferito di un episodio in cui una persona di famiglia raccontava a sua madre che è vero che aveva affittato dei a dei napoletani ma ch equesti erano brava gente. Gli ho chiesto come si fa aa accettare gli extracomunitari se tra di noi dello stesso paese siamo pieni di pregiudizi. A questo proposito mi raccontato un episodio di Natale a tavola con i suoi: a destra i parenti di sua madre che è di Barletta e a sinistra quelli si suo padre che è di Asti. Diceva che civilmente si sopportavano ed erano formalmente educati, ma l’uno temeva che l’altro potesse scalfire le proprie tradizioni, addirittura sulle abitudini e tradizioni alimentari. Si analizzava insieme il timore di essere sopraffatti dall’altro, di soccombere. Ha raccontava che essendo figlio di due regioni, ha appreso l’una e l’altra formazione. Egli stesso ha imparato a contaminare le ricette piemontesi con quelle barlettesi rispettando i due lati delle famiglie. I nonni, seduti a tavola, ciascuno parlava della sua ricetta. Questo a sottolineare che ancora stanno a misurarsi e a ripetere i pregiudizi che i piemontesi hanno dei baresi. La Francia, secondo il tassista, è di molto più avanti di noi, hanno superato di gran lunga i pregiudizi, ma abbiamo visto anche come quelli della seconda generazione fanno gli attentati. E allora ci sono situazioni sommerse mai risolte che poi scoppiano col tempo. Ciò che a volte sembra risolto è solo coperto. La paura principale dell’uomo è di essere sopraffatto, di soccombere alle esigenze del prossimo. L’ho ascoltato con grande interesse notando che era una persona preparata, per niente uno stupido e che vive la vita ogni giorno dall’abitacolo della sua auto, tessendo discorsi con gente sempre diversa, tastando l’animo della gente, gli umori dei clienti e notando meglio di ogni altra categoria come la vita scorre intorno.
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