di Filomena Baratto
Prima che la morte lo cogliesse nel 397, Sant’Ambrogio esclamò: “Com’è penosa l’attesa del giorno che deve assorbire la morte”, commentando il Salmo 48. E noi viviamo sempre con questa spada di Damocle sulla testa, un peso che ci ricorda quanto la nostra vita possa sfumare da un momento all’altro. Nonostante quest’ombra incomba su di noi, la vita è così forte da scalzare la preoccupazione. La nostra religione insegna che vita e morte sono in stretta relazione e sin da ragazza non riuscivo a capire, un mantra per le mie orecchie. Col tempo ho sperimentato che la morte di cui si parla non è la nostra ma quella degli altri. Quando sarà il nostro momento, non avremo nemmeno il tempo di accorgercene, ma vivere ogni giorno quella di un nostro caro è la vera morte che viviamo. Potremmo stilare un albero genealogico di coloro che ci hanno abbandonato, provando che la morte è posta sul nostro cammino sin dalla nostra nascita. Lentamente ci sottrae vite care senza il nostro permesso e senza la possibilità di farcene una ragione. Col tempo diventa un folto pubblico con cui conviviamo e interagiamo. Allora fai il conto di quante vite hai visto morire, quante persone care ti mancano. Li hai visti uno a uno andarsene senza troppo rumore tanto che a volte non ricordi nemmeno che non sono più tra noi per come ne percepisci la presenza. E con la loro dipartita cambia anche il nostro percorso.
Essi non sono più davanti a noi, ma dietro e, da un certo punto in poi, procediamo rivolti verso la strada già percorsa. I morti si trasformano in presenze giornaliere. Potrebbe sembrare facile rapportarci con loro ora che non sono più in vita, tanto valgono i nostri discorsi contro i loro silenzi. Non è così. Quel defunto comunica con noi come allora, conosciamo le risposte, le volontà, i dinieghi, le preoccupazioni, l’atteggiamento nei nostri confronti. Sembra una partita a carte ogni volta che lo vai a riesumare dal cuore e lo poni accanto per parlargli. E allora vivi e morti convivono in simbiosi. Come potrei esistere senza mia madre adesso se non ricordassi tutta la sua vita con me. Come potrei resistere senza tirare dai miei ricordi i nonni con i quali ho vissuto buona parte della mia vita. Vivono ancora in mezzo a noi, presentandosi a volte spontaneamente, a volte tirati dai sogni, altre visitati da un pensiero o una frase che ritorna prepotente. Lungo il nostro cammino perdiamo continuamente persone e dobbiamo trovare la forza di farcene una ragione. E come potrebbe la ragione se non fosse aiutata dai ricordi, da ciò che di loro resta in noi? Noi siamo il risultato delle loro vite, del loro amore, della forza che a loro volta hanno messo per darsi una ragione dei loro morti. Allora si comprende che la vita è fatta anche di morte, e ogni volta è come se resuscitassimo per poter continuare a vivere senza di loro. Mancano, e mancando ci carichiamo di ciò che sono stati.
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