di Filomena Baratto Scomparso il 7 novembre 2021, il giornalista, scrittore Goffredo Locatelli è stato per me un mentore. Ci siamo conosciuti diverso tempo fa. Dopo aver letto il mio romanzo “L’albero di noce”, mi contattò per farmi pervenire le sue risonanze in merito e lo fece presentandosi in chat credendo che io lo conoscessi. Quando si rese conto che non sapevo chi fosse, quasi si infastidì. Questa iniziale mancanza da parte mia nei suoi confronti me la fece pesare a lungo. Ma, da persona squisita quale era, superò il mio sgarro ed entrò in sintonia, galeotto il romanzo che gli era piaciuto molto.
Ci siamo conosciuti una mattina che ti affacciasti sulla mia pagina Facebook attirato dalle mie frasi letterarie. Mi dicesti che la gente avrebbe dovuto ringraziarmi per dispensare tutti i giorni parole su cui riflettere. Mi confessasti che mi seguivi da tempo, attirato da ciò che di interessante scrivevo. Da quel momento, se non riuscivo a scrivere, presa dagli impegni, o non aggiornarnavo il Blog e non scrivevo i miei post, mi rimproveravi. Non conoscevo chi fossi, nè i tuoi libri. Mi definisti subito una “solitudine rumorosa”, questo si percepiva dalla mia pagina. “Tranquilla”, mi dicesti, “Una solitudine troppo rumorosa” è il titolo di un romanzo di Bohumil Hrabal. Sai che cosa ho dovuto fare per intervistarlo? Che cosa mi è costato avere un incontro con lui a Praga? Anzi, cosa non ho fatto per trovarlo!” “Chi era costui”, mi chiedevo. Sembravo Don Abbondio nell’ottavo capitolo de I Promessi Sposi quando all’inizio del capitolo leggeva: “Carneade! Chi era costui?”
Chi era Bohumil e chi era Goffredo Locatelli? Cominciai a leggere pagine e pagine delle tue interviste sulle note testate nazionali per le quali avevi scritto e lessi di Hrabal per avermi paragonata al titolo del suo libro.
Intanto avevi letto tutto il mio Blog e mi segnalavi i post che ti erano piaciuti. Abbiamo fatto lunghe tirate senza farci sconto. Litigavamo come vecchi amici per un nonnulla per poi trovarci a parlare di Ofelia e Macbeth dimentichi dell’ultimo acceso confronto. E come non parlare per giorni di Sheakespere, dei versi di Catullo, I Promessi Sposi, I dolori del giovane Werther di Goethe, I fratelli Karamazov. E’ stata una felicità indescrivibile. Il motivo delle nostre tensioni era dato dalla tua idea che la donna abbia le stesse opportunità di scrivere di un uomo. Questo è stato uno dei temi forti da noi discusso. Ho ancora nelle orecchie i tuoi moniti: “Lasciali morire di fame i tuoi, una scrittrice non cucina e non si immola per la casa e la scuola, ma scrive!!! Scrive e basta! E non privartene, visto che lo sai fare”. E io a dirti che per una donna scrivere è più difficile, prima di mettersi alla scrivania deve assolvere a vari ruoli. Ma tu non sentivi ragioni. Ogni volta che postavo una frase sul mio profilo, poi, puntualmente dovevo discuterla con te. E poi i mille titoli di libri che mi buttavi addosso chiedendomi la trama, quando lo avevo letto, se ne ricordavo le parti. Ci siamo avventurati in letteratura, persi tra le pagine del Viaggio al termine della notte di Louis Ferdinand Celine, Alla ricerca del tempo perduto di Proust, Il canone occidentale di Harold Bloom, senza perdere di vista Dostojevskij, una sorta di persecuzione. Tutto sembrava far capo al grande Fedor. “Ah, be’, adesso posso dire di conoscerti!” Da lì, abilitata a rango di scrittrice, come se avessi sostenuto un esame di controllo, hai azzardato a voler scrivere un romanzo a quattro mani con me. Mi dicesti: “Sei maestra nell’indagare e sondare l’animo umano. Mi sei piaciuta! Non sarei capace di questa analisi introspettiva che conduci molto bene all’interno della storia”. Non riuscivo a credere che mi avessi graziata, senza critiche dopo la lettura. E nelle pagine dei miei libri andavi alla ricerca di quei momenti che tanto ti erano piaciuti nel mio primo romanzo. Un giorno abbiamo discusso per un’ora sulla parola “sbrilluccichio” giungendo poi alla conclusione che avevo ragione ad averlo usato in quella descrizione. “Certo che ne hai di pazienza”, mi dicesti, “per opporti a me per due giorni a difesa di questa parola”. Quando ti ho chiesto perchè ti accanivi a leggere i miei libri, i miei scritti, mi hai risposto serio: “Be’, potrò dire di esserci stato, sì, quando verrò a portarti la borsa a Oslo per il Nobel. Allora potrò dire di aver conosciuto la scrittrice”. Non ho mai riso tanto in vita mia. Si passava dallo scontro al riso. Di rimando ti dicevo che poi avevi l’onere di parlare dei miei libri. “E certo”, mi rispondevi, “perchè se non lo hai capito, il Nobel te lo daranno mica in virtù di quello che hai scritto, ma di quello che spiegherò riguardo ai tuoi libri”.
“Vuoi dire che lo avrò di riflesso?” “No, te lo daranno perchè lo meriti. Sai quanta gente vuole che legga i suoi scritti? Sai quanta insipienza ci trovo da non immergermi per niente tra le loro pagine? Invece tu scrivi come Dio comanda”. Poi ti fermavi e mi chiedevi: “Quali pensi siano le tue qualità di scrittrice?”
“Be’, non lo so, di sicuro la fantasia e l’originalità, il non appantanarmi nei fatti ma lasciar scorrere la storia!” “Esatto! Aggiungerei anche la trama, sai confezionare una buona trama. Ma non ti pavoneggiare, che basta un niente per perderla” Ecco, mentre mi lodavi, mi affondavi, così facevi. Mille offese per un elogio.
L’ultima parola doveva essere la tua e non sopportavi che ti rispondessi per le rime. Una volta mi hai detto che anche scontrarsi può essere un modo per crescere, capire, e ne vale la pena se l’interlocutore è alla nostra altezza. Mi hai detto di aver imparato molte cose da me e lo stesso posso dire di te. Sei stato un mentore inflessibile e severo, senza parole di circostanze, senza benevolenza, sempre irriverente, ma colto e raffinato. Sono rimasta affascinata dalla tua analisi al mio romanzo, in quali meandri ti sei inoltrato, con quanta precisione hai criticato la trama, lo stile, lo scorrere degli eventi, la coesione del testo, la psicologia in esso sottesa. Quando nel bel mezzo di una discussione te ne uscivi con le parole del mio libro, non sembrava vero che avessi fatto tue le mie frasi. Ridevamo a crepapelle quando mi lanciavi qualche parte del mio testo e io a chiederti chi fosse l’autore. E tu mi rispondevi: “Ma lo hai scritto tu o no? Sono parole tue e non le ricordi?”.
E’ stato un confrontarci continuo. Mi chiedevi spesso perchè la gente non mette un like alle frasi di Pasolini ma alle foto di miss Italia. “Che vuoi se ne importi di Pasolini, ti rispondevo, la gente deve consumare, ma non la cultura, solo ciò che passa e svanisce, mentre Pasolini resterà lì per sempre”. E allora davi una rotta diversa alla tua pagina per sperimentare ciò che ti dicevo. “E un giorno, serio, mi hai detto:” Oh bella, io maestro di comunicazione che ascolto te per cosa scrivere sulla mia pagina. Mi stai corrompendo parecchio”. Ti dissi, in quell’occasione, che un qualsiasi tipo di rapporto è sempre di tipo pedagogico: si apprende a fasi alterne. Non mi sembrava vero che potessi insegnare qualcosa al grande maestro.
Mi manca la tua prima parola mattutina, quel “la” che metteva in moto la mia fantasia, un input a creare, a scrivere, a confrontarmi. Le tue arringhe irrefrenabili, voler leggere le ultime pagine scritte. Mi mancano i tuoi consigli:” Vacci piano con Proust, la Ricerca va letta a poche pagine per volta, altrimenti ci affoghi dentro”. E poi gli accorgimenti per i dialoghi, come tagliare quando la situazione va per le lunghe o come prosciugare un testo. Ma la più bella sensazione è stata ricevere il tuo elogio per la prima prova di scrittura a quattro mani: scrivere lettere sulla riga di quelle di eroine ed eroi di Ovidio. Un progetto che voglio portare a termine scrivendo le parti dell’uno e dell’altra. Ti sarò sempre grata per quello che mi hai insegnato, come l’uso preciso della parola, la chiarezza del pensiero prima ancora di scriverlo, l’uso delle parole spese sempre con cura. Dicevi di essere un artigiano, smontavi e rimontavi le parole ed era vero. Ma dicevi anche che, nonostante tu avessi esperienze da vendere, io avevo più capacità di inoltrarmi nelle situazioni e scriverle in modo reale, frutto questo della mia esperienza di vita. Scrivendo questo post riesco ancora a sorridere ricordando i momenti descritti. Mi è rimasta intensa la discussione sulla solitudine rumorosa di cui mi hai tacciata.
Sento sempre il tuo: “Toglilo via” per dire un aggettivo da abbattere, oppure, quando ero troppo esplicita nella descrizione: “Ma credi che il lettore sia stupido?” E ancora: “Capisco che voi professori siete per la grammatica e non volete ripetere, ma un soggetto quando ci vuole ci vuole, quindi inseriscilo, sennò ti vengo a chiamare quando arrivo a questo rigo, tu lasciaci il numero di telefono, proprio qui e io chiamo!” Ore a leggere opere e a discuterne, a parlare di politica in cui ti sentivi forte, a leggere i tuoi articoli che non facevano una piega. Che dire, onorata di averti conosciuto! Hai lasciato in me un segno indelebile, una delle poche se non l’unica persona colta con la quale ho avuto un confronto di crescita. Ci siamo letti e commentati a vicenda. A volte mi chiedevi cosa pensassi del tuo libro, di ciò che avevi scritto, di cosa avrei scritto io in merito. Mi fermo solo per mettere un punto a questo post, ma mi toccherà scrivere un libro per tutti i racconti di giornale di cui mi hai fatto dono, di tutti i personaggi incontrati di cui mi hai parlato, di tutti i politici con cui sei stato a contatto, delle esperienze vissute, delle storie più strane.
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