giovedì 26 giugno 2025

Giancarlo Esposito: «Napoli mi ha fatto capire chi sono»

di Ida Palisi - Corriere del Mezzogiorno

Vico Equense - Galeotto fu il San Carlo, dove i suoi genitori si incontrarono: la mamma cantante d'opera afroamericana e il papà macchinista teatrale. E lui c'è andato, un paio d'anni fa, a visitarlo mentre era chiuso: un vigilante fu colpito dalla sua commozione e lo fece entrare. Scorre sangue napoletano nelle vene di Giancarlo Esposito, che pronuncia il suo cognome con l'accento giusto sulla «e» ed è arrivato in gran forma a Vico Equense per ricevere il Premio come «attore internazionale dell'anno» al Social World Film Festival diretto da Giuseppe Alessio Nuzzo. Sessantasette anni, una carriera iniziata da bambino nella parte di uno schiavo in un musical di Broadway, Esposito ha oggi all'attivo più di cento film, con registi come Francis Ford Coppola, Spike Lee e Abel Ferrara, e poi film Disney, un web serie dedicata al videogioco Payday 2, e tanto, tantissimo altro. Pure molta tivù: è stata la serie cult «Breaking Bad», dove interpreta il boss del narcotraffico Gustavo «Gus» Fring, a dargli una notorietà mondiale. A Vico ha partecipato a una masterclass con i ragazzi della giuria «giovani» e poi alla proiezione serale del suo ultimo film, «Captain America: Brave New World», dove veste i panni del mercenario Sidewinder. Giancarlo lei fa parte della grande famiglia degli Esposito nel mondo: che cosa ha significato per lei essere mezzo napoletano? «Sono sempre stato orgoglioso del mio nome e delle mie origini napoletane. Da mio padre ho imparato che il cibo, le scarpe e molte cose sono buone in Italia e ancora meglio a Napoli. Però mi sono sempre sentito di non essere abbastanza perché "Esposito" significa essere un bambino esposto e mi ha sempre impressionato la storia che erano lasciati in una ruota, come pure l'altra versione del racconto, che erano bambini che venivano lasciati in un orfanatrofio dove il prete si chiamava Esposito e dava a tutti il suo cognome. Ecco tutte queste storie hanno qualcosa di importante per me mi facevano sentire come un rinnegato, come qualcuno che non era abbastanza. Però quando senti di non appartenere a niente allora ti crei un'identità originale e solo tua. Così ho fatto io: non voglio essere come tutti gli altri perché non lo sono. Sono felice di essere qualcosa di speciale e quando sono tornato a Napoli per la prima volta dopo sessant'anni mi sono reso conto di chi sono».

 

È vero che la chiave del suo successo è di essere italiano? «Sì, ma anche di essere in parte bianco e di colore. Mi sento di essere la parte migliore dell'umanità. Se vai in Sicilia gli italiani sembrano napoletani, se guardi le chiese sono costruite sulle moschee. Ci sono stati i mori, i greci ma non hanno distrutto tutto. Sono esempi perfetti di come le culture si integrano e coesistono. Io nelle chiese ci vado perché ero un chierichetto, dovevo diventare un prete, ci sono cresciuto nelle chiese e credo in Dio, in un potere più forte: dentro di me c'è una signora anziana che va a messa con il rosario in mano». Quindi le piace stare dalle nostre parti? Ha parenti qui? «Mi piace stare a Roma e a Milano, mi piace la moda, l'arte, Da Vinci, il duomo ma quando vengo a Napoli amo la gente, mi sento davvero vicino alle persone. Purtroppo parlo molto male italiano perché quando mio padre divorziò da mia madre non ho più sentito parlare italiano in casa, ci siamo trasferiti in America e io volevo solo trovare il mio posto nel mondo: non venivo accettato perché il mio nome era Giancarlo Giuseppe Alessandro Esposito. Ho un cugino a Napoli, si chiama Giuseppe ed è il figlio del fratello di mio padre, abbiamo la stessa età e l'ho incontrato due estati fa. È uno chef, lavora al carcere di Poggioreale e non parla una parola di inglese. Mi ha raccontato di suo padre che è morto a 42 anni per i veleni della fabbrica chiusa da quarant'anni e le sue figlie hanno tradotto per lui. È molto bello essere vicino a qualcuno che è tanto simile a te ma ha la pelle di colore diverso dal tuo». Ma come fa un «napoletano» come lei a essere credibile come cattivo? Non è meglio la commedia? «Perché i cattivi sono divertenti, dai buoni sai cosa aspettarti Ma la vera risposta è che sono cresciuto molto arrabbiato, perché mio padre non mi ha portato in Italia. Non capiva che in America ero solo un ragazzino di colore, venire in Italia mi avrebbe dato un' identità. Fare il cattivo mi ha aiutato a gestire la mia rabbia: posso uccidere, urlare come un bambino piccolo che fa quello che vuole e mi pagano pure». Ricordi con suo padre? «Lo amavo moltissimo. Era una grande fan di Maradona ma ricordo che quando avevo venticinque anni siamo andati insieme a Roma per vedere la partita allo stadio ma era un periodo in cui c'era molto razzismo. Lui ebbe paura di andarci con me che ero un ragazzino di colore così guardammo la partita nell'hotel e mi spezzò il cuore». Il suo Gus di «Breaking Bad» è un cattivo intelligente ed educato. Le è mai capitato di essere confuso con il suo personaggio? «Le persone hanno paura di me, anche i miei figli. Ma il mio episodio preferito è accaduto su un aereo: mi sono alzato per andare in bagno e c'era una signora in piedi molto giovane. Mi vede, si attacca al muro e inizia ad annaspare, io le dico "vada pure", ma lei "no, no, Gus! ". A volte la gente non capisce e mi confonde con il mio personaggio: è ridicolo ma anche interessante perché vuol dire che hanno davvero creduto in quello che ho fatto. Certo a volte mi dava fastidio e dicevo: sono Giancarlo! Ma è meglio ora che qualche anno fa quando lottavo per avere un lavoro ed è una benedizione perché vedono il mio talento e io ho la possibilità di fare quello che amo fare».

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