di Filomena BarattoIl richiamo della foresta di Jack London è il cosiddetto classico che ognuno dovrebbe leggere. L’autore, nato a San Francisco nel 1876, ebbe una breve e intensa vita, morendo a soli quarant’anni. La storia fu frutto dei suoi viaggi e della sua esperienza di vita, volta a cogliere la realtà nei suoi molteplici aspetti. E’ l’avvincente storia di un cane, che dalla comoda villa del giudice Miller a Santa Clara in California, finisce nelle terre tra il Canada e l’Alaska, con i cercatori d’oro. Buck è un misto tra un enorme San Bernardo, suo padre, e un pastore tedesco, sua madre. La sua vita a casa del giudice si interrompe nell’autunno del 1897, quando il giardiniere Manuel, un uomo viscido e indebitato fino al collo, a insaputa del padrone, lo vende per 50 dollari. Da qui inizia l’avventura di Buck che, da giornate noiose passate accanto al camino di casa Miller, finisce per assaporare la dura legge del bastone e la sottomissione al padrone. Comprese, sulle ghiacciate piste del nord, che non si poteva avere alcuna pietà: se uno cadeva, per lui era finita. Le fibbie e le tirelle della slitta diventarono la sua gabbia e il faticoso lavoro, il suo pane quotidiano. Le scene in cui è ambientata la storia sono i luoghi visitati dall’autore dove tempo prima era andato alla ricerca dell’oro.
London, che era partito dal voler scrivere un racconto, disse in seguito che da quattromila parole ne aveva scritte quarantamila e, non riuscendo a rientrare nelle premesse, diede vita a un romanzo. Secondo Jung non è importante che l’artista si prefigga qualcosa, ma a cosa porta quella “visione primordiale”, per cui l’opera creata manifesterà significati che trascendono le intenzioni coscienti dell’artista. Non immaginava, l’autore, di creare qualcosa che appartenesse agli uomini e agli animali in un rapporto stretto con la natura. Secondo il critico letterario Max Geismar, l’opera è “un bel poema in prosa su oro e morte a livello istintuale”. Ed è la storia di un eroe che attraversa tutte le fasi: la partenza, l’iniziazione, il viaggio, fino alla trasformazione e al gran finale. Buck diventa a questo punto un mito. La sua avventura corre lungo le piste gelate del nord, dove ogni giorno deve superare una prova e imparare qualcosa utile alla sopravvivenza stessa. La lettura di questo testo non ha controindicazione, va letto a tutte le età, che sia per la prima volta o per l’ennesima. E’ una lotta che insegna a vivere, che suggerisce i principi su cui essa si fonda. Buck prova il dolore fisico, quello della perdita dei compagni, l’attaccamento al padrone, l’odio verso chi lo bastona, a ubbidire per non soccombere, a combattere per non lasciarsi sopraffare, a cacciare nella violenta foresta. Fino ad arrivare a quel richiamo oscuro della sua parte più profonda che lo spinge a fuggire lontano, non per scappare da qualcosa, ma attratto dall’ignoto, dal richiamo della foresta. Il maggior valore di questo libro risiede non solo nella chiara descrizione che egli dà della vita, ma nella capacità di suggerire i principi sui quali poggia. Buck racchiude l’eroe dalle mille facce, evidenti nel percorso dal mondo civilizzato alla frontiera della corsa all’oro nel Klondike e, attraverso il mondo naturale, va al di là, verso quello soprannaturale. Anche lo stile affronta questi passaggi, cominciando con idilliache descrizioni d’interni, passando per scene avventurose fino a raggiungere uno stile poetico. Tra queste scene, indimenticabile quella finale: “Nelle lunghe notti d’inverno, quando i lupi scendono nelle valli meridionali per cacciare la loro preda, lo si può vedere correre alla testa del branco, nella pallida luce della luna o nel brillare dell’aurora boreale, gigantesco nella corsa, sovrastando tutto il branco, mentre canta a piena gola un canto del mondo primitivo, che è il canto del branco”. Questa è una gran pagina di letteratura. C’è tutta la sofferta conquista di se stesso, di Buck, ma anche di ogni uomo lungo il percorso della sua vita. E la vera letteratura è quella pagina in cui ognuno si può rispecchiare per ritrovare una parte di sé e sentirsi in un destino comune agli altri uomini. Le più belle parole spese per questo testo sono di Oriana Fallaci: «Mi innamorai subito di Buck. E il colpo di fulmine fu tanto struggente che mi staccai da Buck solo all’alba, al momento in cui egli mi abbandonò per correre dietro ai lupi e divenire lupo lui stesso. Dalla camera accanto, la mamma brontolava: “Spegni la luce! Vuoi spegnere la luce e dormire?". Ma io non volevo, non potevo spegnere la luce e dormire. Sarebbe stato come togliermi un pezzo di pane dalla bocca, buttar via un sortilegio che mi avviluppava per trasformarmi. Quando ebbi finito il libro, infatti, non ero più una bambina che crede a De Amicis e a Salgari e a Verne in un mondo di bugie affascinanti e pietose. Ero una bambina pronta a trattar con gli adulti in un mondo di dure realtà. Una bambina cui Buck aveva insegnato che la vita è una guerra ripetuta ogni giorno, spietata, crudele, una lotta da cui non puoi distrarti un minuto, neanche mentre dormi, neanche mentre mangi, altrimenti ti rubano il cibo e la libertà. Dio, era così facile perdere la libertà».
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