giovedì 13 marzo 2025

Nasce polacco ma è napoletano la storia del Babà

di Luciano Pignataro - Il Mattino

Il Babà non finisce mai di affascinare e appassionate. Dopo il volume della giornalista Flavia Amabile del 2001 ecco un nuovo testo di Luigi Vivese, appassionato di gastronomia napoletana, che già si era dilettato con la genovese. Il volume «Il Babaà, il re della pasticceria napoletana» (Coppola Editore euro 14,50) è stato presentato al Gambrinus alla presenza di alcuni pasticcieri storici della città che sono diventati anche protagonisti. L'autore esplora il Babà da tutti gli aspetti possibili e immaginabili: la storia, la ricetta, i modi di dire, le testimonianze di chi continua la tradizione di un dolce antico, la cui prima ricetta risale al 1836 ma moderno per la leggerezza e l'eleganza. Proprio come la pizza, la pasta, il caffé, il Babà non è nato alle falde del Vesuvio ma nel freddo Nord, precisamente in una cittadina francese chiamata Luneville ai confini con la Germania: a inventarlo fu un re bidetronizzato, il polacco Stanislao Leszczinski, suocero di Luigi XV di Francia che aveva sposato sua figlia Maria. Grazie alla sua parentela importante, aveva avuto come buona uscita il Ducato di Lorena dove potè costruire impossibili ricette politiche per il futuro dell'Europa e passare alla storia per l'unica cosa seria fatta nella sua vita, inventare il Babà. Ancora oggi esiste un dolce, baba senza accento, ossia slavo e non francese, nella sua Polonia. Si dice che l'ex re abbia bagnato nel Madeira una fetta di kugelopf, il dolce austriaco ermafrodito, cioè mezzo panettone e mezzo brioche, e che da allora lo abbia sempre voluto così. La sua grande passione per la cucina portò a nuove e più ricche elaborazioni con l' impasto lievitato tre volte e sbattuto per ottenere una pasta più leggera, pieno di uvetta e con lo zafferano di cui erano ghiotti i turchi i cui gusti aveva incontrato da prigioniero quando aveva perso per la prima volta il suo inutile regno.

 

Un altro salto di qualità è la decisione della bagna, necessaria per sostenere la morbidezza del dolce altrimenti destinato rapidamente a pietrificarsi in poche ore. Stanislao sceglie il Madeira, a Versailles, dove si dettavano le mode, si usa il rhum giamaicano, l'ultimo dei benefici importati dalle Oltreoceano. Ma nella società capitalistica un cibo per diventare prodotto si deve reificare in merce, altrimenti resta solo una curiosità familiare. Ed è quanto avviene con il pasticcere originario della Polonia Sthorer che a Luneville ha seguito l'esilio del re mangione, poi si trasferisce con sua figlia Maria a Versailles dove nel 1725 sposa Luigi XV, infine apre un proprio laboratorio a rue Montorgueil, ancora oggi è al numero 52, dove crea i babà a forma di fungo o cappello di cuoco così come sono giunti fino a noi. Vivese ci ricorda che ciascuno di noi ha a casa gli ingredienti per fare il Babà, ma anche che non esiste una ricetta codificata come avrebbero fatto i francesi.Perché la differenza fra i cartesiani transalpini e gli eredi della cultura individualistica greca è proprio questa:i primi sentono il bisogno di mettere ordine nelle cose come nelle ricette, gli italiani hanno sempre un segreto non rivelato per presentare al meglio un piatto. Il dolce è simbolo del filo diretto con cui Napoli è sempre stata legata a Parigi negli ultimi tre secoli. Un legame nato precisamente quando Maria Antonietta sposa Luigi XVI mentre Maria Carolina si lega a soli sedici anni nel 1768 per procura a Ferdinando IV di Borbone. Tra le due figlie di Francesco duca di Lorena e imperatore d' Austria e di Maria Teresa d' Asburgo matura una rivalità di cui probabilmente la prima non ha avuto modo di accorgersi, ma la seconda l'ha coltivata nel suo esilio solare mandando in continuazione emissari a Parigi per scoprire le ultime tendenze dei sarti e degli chef: nasce così l'epopea del gattò, della besciamella, del gratin, degli sciu e di quei termini francesi e francofoni con cui la cucina napoletana conosce l'influenza d'Oltralpe oltre un secolo prima del suo affermarsi in Italia come nouvelle cousine. Una lettera gradevole, che arricchisce la sterminata biblioteca gastronomica napoletana.

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