di Maria Chiara Aulisio - Il MattinoQuarant'anni di sacerdozio li celebrerà il 22 giugno, alle 10.30, nella chiesa della Santissima Trinità, in via Portamedina, quella del Vecchio Pellegrini per intenderci, dove don Tonino Palmese - salesiano, presidente della Fondazione Polis, che sostiene le vittime innocenti della criminalità, e Garante dei diritti dei detenuti per il Comune di Napoli - ogni domenica dice messa.
Tempo di bilanci.
«Ho il grande privilegio di poter dire ne è valsa la pena e anche di aggiungere che ne vale ancora la pena».
Nessun rimpianto?
«Nessuno. I bilanci talvolta possono farti disperare se sei rimasto illuso o deluso di ciò che hai vissuto. Seguire Cristo attraverso la storia di don Bosco mi ha sempre sostenuto e incoraggiato».
Don Bosco, il vostro fondatore.
«Ci ha insegnato che al primo posto viene il dovere di dar conto alla propria coscienza e subito dopo la capacità di non dire mai "non tocca a me". Credo sia questo l'elemento che più di ogni altro mi ha fatto amare la sua scelta e quella della vita salesiana».
Partiamo dalla decisione di diventare sacerdote.
«Non ci ho messo molto a capire quale sarebbe stata la mia strada».
Aveva le idee chiare.
«Mi sono fidato e affidato a Dio e alla Madonna. Mi ricordo perfino che da piccolo non riuscivo a prendere in giro gli altri, nemmeno a fare un piccolo dispetto; e non per paura o vergogna ma perché, ogni volta che vedevo qualche compagno farlo, provavo una grande sofferenza. Così come mi porto dentro il ricordo, direi poetico, del mio pianto per i camerieri».
Perché piangeva per i camerieri?
«Quando andavo al ristorante, vedere un adulto costretto a servirmi senza potersi sedere a tavola con noi, mi faceva stare male. Forse è lì che è nata la mia vocazione, la mia empatia verso il cristianesimo, quando ho capito che volevo servire e non farmi servire».
Da qui l'impegno nei confronti dei più fragili.
«Dai familiari delle vittime della criminalità ai detenuti».
Due facce della stessa medaglia.
«Il nostro obiettivo deve essere uno solo: restituire dignità e autenticità a chi l'ha persa. Don Bosco già nell'ottocento metteva in pratica il bisogno di consegnare alle giovani generazioni l'orgoglio della vita e una coscienza capace di discernere, e scegliere, il bene e non il male».
Il bene, diceva.
«Si insegna praticandolo».
Lei dove l'ha imparato.
«Vi racconto una storia, la storia che mi ha illuminato, di tempo ne è passato ma è bella lo stesso».
Racconti.
«Mi trovavo in una stanza di ospedale a Parigi. Uno dei letti era occupato da un uomo ancora giovane ma molto malato. Sarebbe entrato in coma di lì a poco, non so come si ricordò che quel giorno era il suo anniversario di matrimonio».
Momenti di lucidità.
«Mi chiese la cortesia di andare a comprare un mazzo di fiori per la moglie, a fatica afferrò il portafogli e mi diede dei soldi: non li volevo, mi avrebbe fatto piacere pagare per lui ma non accettò. Feci una gran corsa e quando tornai con i fiori ebbe giusto il tempo di consegnarli alla sua sposa e si addormentò».
Bel gesto da parte sua.
«Quell'uomo era mio padre e lei mia madre, fu una lezione d'amore che ha dettato le regole di tutta la mia vita. Nel tempo ho capito che la grazia più grande che possiamo ricevere è la possibilità di riconoscere in ogni cosa l'appello di Dio, la sua presenza, la sua gloria, il suo trionfo».
Ha parlato di lezione d'amore.
«Tre cose mi ha insegnato mio padre. La prima è l'importanza di avere delle idee, era un comunista e cristiano militante, così innamorato di Berlinguer, che è riuscito a morire, aveva 59 anni, lo stesso giorno, mese e anno in cui morì lui».
La seconda?
«La necessità di imparare un mestiere, se sai fare qualcosa - diceva - vivrai sempre nella legalità e nel rispetto degli altri. E poi la terza, la più importante: il valore dell'amore che praticava quotidianamente dedicando la vita alla sua donna».
Lavoro, amore e giustizia, il messaggio che cerca di trasmettere anche ai detenuti napoletani di cui è garante.
«L'impegno nelle carceri è sempre stato uno dei miei obiettivi. Per cultura ritengo che la giustizia riparativa sia una forma di riconciliazione estranea alla retorica del perdono, provo a farlo capire anche a chi non la pensa così. La mia nomina è nata da un preciso desiderio».
Quale?
«Dare la possibilità ai detenuti, attraverso le vie previste dagli ordinamenti carceri, di ottenere i loro diritti, dalla salute alla dignità, all'interno del carcere».
Tanto lavoro, non solo nei penitenziari, e sempre meno sacerdoti. A Napoli la crisi delle vocazioni si sente con forza.
«A Napoli come dappertutto. Va detto che qui la città è in forte ripresa, avanza anche la legalità, e ci sarebbe un gran bisogno di sacerdoti pronti a scendere in campo».
Invece che cosa sta succedendo?
«La verità è che è difficile fare un patto con qualcuno - nel senso di seguire il Signore - per tutta la vita, dare continuità a una promessa che duri per sempre. Credo che l'attuale modello di proposta vocazionale dovrebbe includere altre modalità: la chiesa, con grande umiltà, deve imparare a ribadire la bellezza della ministerialità sacerdotale, della consacrazione alla vita religiosa».
Sta dicendo che certi ruoli andrebbero rivisitati.
«Con modalità nuove. Il sacerdozio non deve mai determinare la solitudine, bisogna imparare a convivere con altre forme di apostolato».
Una visione pastorale condivisa.
«Sempre più condivisa direi. Attualmente in molti luoghi prevale la figura del prete navigatore solitario. E non funziona così, oggi più che mai servono figure e ruoli rivisitati per dare uno slancio vocazionale e missionario».
Qualche giorno fa ha ricevuto la cittadinanza onoraria di Meta di Sorrento. Bel regalo per i suoi 40 anni di sacerdozio.
«Straordinario. E aggiungo che sono molto fiero di aver condiviso lo stesso percorso con Federico Cafiero de Raho, cittadino onorario anche lui. Meta è diventata il nostro luogo del cuore».
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