di Filomena Baratto
Il conte di Montecristo, chi non lo ha letto almeno una volta? Romanzo d’appendice della letteratura francese, feuilleton, nato a puntate sui giornali e pubblicato nel 1844. È ambientato durante il periodo della Restaurazione e della monarchia di Luigi Filippo. Il protagonista Edmond Dantes è accusato di tradimento, nel giorno del suo fidanzamento con Mercedes Herrera Mondego, e portato nel castello d’If dove sconterà la sua pena. Quanto basta per incuriosire e scuotere anche il lettore più pigro e recalcitrante alla lettura. Sin dalle prime pagine si respira aria di avventura, di ingiustizia ai danni di Edmond, di intrighi, cattiverie e ci si chiede come si possa sopravvivere a tutto il male ricevuto. Tutto parte dall’amico Fernando che lo invidia quando assume il comando del veliero Faraon, oltre a non perdonargli l’amore per Mercedes. Su queste basi si fonda un romanzo tra i più amati della letteratura mondiale. Eppure ha un intreccio logico, prevedibile e, nonostante si presumano gli sviluppi, attira per il modo con cui si mette in atto la vendetta. Essa giunge lentamente, meditata, costruita con precisione e pazienza, tenendo il lettore col fiato sospeso. Complice lo stile, definito da Umberto Eco “ridondante” e, quello che sulle prime può ritenersi un difetto, rappresenta un elemento quasi necessario per sviluppare una storia di 893 pagine. Se fosse stata scritta in modo diverso, priva di quell’abbondanza di riferimenti e spiegazioni, non avrebbe riscontrato lo stesso successo. Nella prima parte le motivazioni della vendetta, nella seconda il suo sviluppo.
I luoghi del romanzo sono Marsiglia, il castello d’If, l’isola di Montecristo, Parigi. Edmond è un marinaio originariamente povero, per niente colto o raffinato ma il destino, come per incanto, lo fornisce di una ricchezza, di un titolo e di un fascino incontrastato. Grazie all’abate Faria, incontrato in prigione, Edmond è informato di un tesoro nascosto sull’isola di Montecristo che risale ai Borgia. Escogitato un piano di fuga dalla fortezza in cui è rinchiuso, con la morte di Faria, Dantes, inaspettatamente, si ritrova a dare vita ai suoi propositi. Il tesoro gli fornisce i mezzi per mettere in atto la vendetta. Parte alla volta di Caderousse, che non aveva denunciato Danglar e Fernando Mondego quando avevano scritto la lettera per accusarlo. Ma poi lo grazia per aver poi accudito suo padre fino alla fine mentre era in prigione. A questi si aggiunge il magistrato Villefort, responsabile di averlo mandato in prigione, e imponendo agli altri due una fine ingloriosa. Con la vendetta zittisce solo quella forza distruttrice che non lo faceva vivere e chiedeva giustizia. Man mano che si avventa sui nemici, portando loro pene e sofferenze, anch’egli perde forza. Aveva ragione l’abate Faria quando gli aveva suggerito di scavarsi la fossa prima di pensare alla vendetta. Magra consolazione se poi la vita non gli ridà ciò che ha perso: gli anni, Mercedes, la voglia di vivere. È ormai un uomo spento, svuotato dal tempo e dal dolore, dalla cattiveria e non vede altro da fare che chiudersi in se stesso. Una vendetta durata dieci anni. Nelle ultime pagine del romanzo leggiamo: “Giunto al sommo della sua vendetta per il lento e tortuoso declivio che aveva seguito, vide l’abisso del dubbio. […] Il conte diceva a se stesso che per essere giunto quasi a biasimarsi, doveva aver sbagliato i suoi calcoli.” E ancora: “Lo scopo che mi ero proposto sarebbe stato insensato? Avrei percorso una falsa strada per dieci anni?” La storia, arrivata a questo punto, gli appare diversa, non più carica di quell’odio e rabbia avuti in un primo tempo, ma quasi che la ferita non procuri più dolore, proprio come accade in sogno: “Ciò che manca ai miei ragionamenti di oggi è l’apprezzamento del passato. Infatti, il passato, simile a un paesaggio attraverso il quale si passa, si cancella dalla memoria mentre si allontana. Mi accade come a coloro che si sono feriti in sogno: guardano e sentono la loro ferita e non si ricordano di averla ricevuta.” Eppure Dumas modella il suo giustiziere sul protagonista de i Misteri di Parigi, Rodolphe de Gerolstein, di Eugene Sue. Edmond Dantes si porta dietro del protagonista dei Misteri: gli obiettivi, la forza e la convinzione che la giustizia fatta da sé sia la migliore. Ma diversamente dal primo, Dantes affronta mille peripezie per mettere in atto il suo piano, avvicinandosi a racconti orientali come Le mille e una notte. E forse proprio quest’ultimo aspetto lo arricchisce di novità, di movimento rendendo questo romanzo una storia attuale, intrigante e sempre nuova. La vendetta su cui il protagonista giurava all’inizio perde forza, poiché i fatti col tempo assumono altre sfumature che non vengono agli occhi quando accadono. Una visione distesa attenua i fatti, poiché la vendetta fa diventare simili al nemico. E con una nuova visione degli eventi, prende piede la speranza che tutti possono cambiare e di conseguenza il perdono.
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