mercoledì 23 aprile 2025

Genovesi e Nietzsche La filosofia nata in Costiera

Massaquano, palazzo Bartolomeo Intieri
A distanza di circa un secolo la Terra delle Sirene ispirò il pensiero di due autori profondamente innovatori 

di Raffaele Iovine - Il Corriere del Mezzogiorno 

A conclusione delle celebrazioni degli 800 anni dell'Università di Napoli Federico II, ricordiamo l'istituzione nel 1754 della prima cattedra al mondo di Economia civile, finanziata da Bartolomeo Intieri, il fondatore dell'Illuminismo meridionale, e appositamente creata per Antonio Genovesi. Quello che è considerato dagli storici come l'evento accademico più importante del XVIII secolo venne progettato sulle montagne di Vico Equense, nel borgo di Massaquano, dove Intieri si era trasferito dando vita ad un cenacolo che raccolse attorno a sé i miglior ingegni della nuova cultura. In questo ambiente, maturò il Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze, il manifesto più incisivo dei philosophes italiani, che consacrò il passaggio di Genovesi da «metafisico a mercatante». Poco più di cento anni dopo, nell'autunno del 1876, il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche iniziò a Sorrento, nell'atmosfera intellettuale di villa Rubinacci, la stesura «nelle sue parti principali» di un'opera che ha segnato non solo la conversione illuministica del suo pensiero ma un deciso momento di svolta della storia mondiale: Umano, troppo umano. Un libro per spiriti liberi. Valse per entrambi i filosofi l'immagine della terra delle sirene, il «domicilio delle muse», nella versione di un mito, che occupando la scena di un sapere problematico non impone sacrifici ma ti accoglie, ti offre la mano, ti invita a usare le «chiavi alterne» della logica come premessa necessaria di ogni filosofare storico.

 

Può dirsi senza ombra di dubbio che in entrambe le opere, partorite nel «miscuglio di aria di mare e di montagna» della costiera sorrentina, si siano giocati alcuni destini dell'umanità, che hanno anticipato con sguardo profetico le tragedie mondiali del secolo scorso. Diversi furono invece gli sbocchi biografici dei due intellettuali: al mite sacerdote salernitano si aprirono in pianta stabile le porte dell'Università dopo cocenti delusioni negli anni precedenti, mentre all'Anticristo e nichilistico studioso tedesco quelle porte si chiusero del tutto, mettendo fine ad una carriera iniziata ad appena 26 anni, quando fu chiamato ad occupare la cattedra di Filologia classica dell'Università di Basilea. I filologi europei, Willamowitz in testa, non gli perdonarono la Nascita della tragedia (1872), la visione mai prima elaborata del coraggio dell'uomo greco, di che cos'è fronteggiare il dolore e di trasvalutarlo in bellezza con la passione e l'urlo taurino del mondo dionisiaco. Simboli che andavano d'accordo con l'idea schopenhaueriana della civiltà e con la concezione wagneriana del nuovo teatro tedesco, del wort-ton-drama, dell'unità di musica e di parola, di danza e di movimento. Fu l'epoca estetica di Nietzsche, per la quale egli scrisse che l'arte è il luogo della restaurazione della vita e della civiltà. Il teatro di Bayreuth nacque in questo clima neoromantico e decadente, del ritorno estetico all'arcaico, ai miti, alla volontà di vivere. Ma quando nel maggio del 1876 il festival della tetralogia venne inaugurato, l'autore dello Zarathustra cadde in una profonda crisi personale di fronte allo spettacolo disgustoso offerto dallo stuolo di prìncipi e aristocratici, lì accorsi per onorare il kleos del vecchio e compiaciuto Wagner. Proprio lui, il compositore, l'ex anarchico discepolo di Bakunin, che - dopo aver esaltato i miti pagani nel segno dell'unità tedesca - era giunto a inneggiare nel Parsifal il riscatto cristiano della ferita di Adamo, che dopo aver celebrato il crollo del Valhalla - metafora di un corrotto capitalismo che stava guidando in terra tedesca la seconda rivoluzione industriale - non disdegnò finanziamenti al suo teatro dalla «oziosa marmaglia d'Europa». Uomini senza qualità, privi di autentico respiro ideale, attratti soltanto da borghesi quanto effimere «vogliuzze» quotidiane. Nauseato da tutto ciò, Nietzsche comincerà a scrivere, davanti «al mare azzurro cupo e dietro il Vesuvio», i suoi aforismi illuministici, senza stile né struttura, perché le grandi opere non hanno autore, sono il frutto del mondo e dell'esperienza. La dedica di Umano a Voltaire nel centenario della morte (maggio 1878) segnò il definitivo divorzio del filosofo dal Tristano e Isotta, dall'ambiente reazionario e nostalgico, cupo e tenebroso dei suoi primi maestri, Schopenhauer e Wagner, cui solo qualche anno prima ne aveva esaltate le personalità nelle Inattuali. In quello strappo, come notò Heidegger, può leggersi il dramma della coscienza europea, da cui occorreva cominciare a riprendersi con una nuova riflessione, intorno alle «prime e ultime cose»: dalla rozza umanità agli spiriti liberi. Bisognava ritornare alle vere origini dell'uomo, all'analisi delle pulsioni originarie dello spirito umano, una strada aperta da Genovesi con la sua teoria delle forze cosmiche, infinitamente grandi ma anche infinitamente piccole, che si scontrano e producono infinite combinatorie di cause ed effetti. Ma l'idea degli istinti primordiali della cupidità e della socialità venne stroncata dalla logica hegeliana, poi crociana, e collocata in un quadro di assoluto idealismo ontologico simile al medievale, che portò non solo a identificare Razionale e Reale, ma a considerare quella struttura come oggettiva e senza contraddizioni. Quindi fu annullato il peso dell'irrazionale, che invece è effettivo, esistenziale, non essenziale, intrinseco ad ogni dialettica, la cui soluzione non è mai perdente o vincente in assoluto ma è sempre una manifestazione del divenire empirico, da Nietzsche intesa come volontà di potenza, che si serve della ragione per consentirci quelle azioni che sono pura affermazione della vita. Si apriva così una nuova strada per i futuri viandanti della conoscenza, per coloro che avranno il coraggio di spingersi oltre le misure umane, troppo umane, che negano la vita, che sono predicazioni di morte, espressioni di una cultura, di una civiltà, di una categoria sociale che non ha più il coraggio di vivere, di assumersi più la responsabilità della propria prospettiva contro tutte le altre, nel bene e nel male, al di là di ogni bene e di ogni male .

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