di Gimmo Cuomo – Il Corriere del Mezzogiorno
Ancora una disgrazia s'è abbattuta sul monte Faito. Quasi un fulmine divino sulla montagna dei misteri che sovrasta Castellammare di Stabia. Quattro morti, la voce più tragica del bilancio dell'incidente della funivia di ieri pomeriggio, che include anche un ferito grave. Così come quattro furono le vittime dell'unico precedente, del 1960. Era Ferragosto, con il Lunedì in Albis tradizionalmente il giorno di massimo traffico per l'impianto, inaugurato nell'estate del 1952. Le due panarelle (così vengono tuttora chiamate localmente le cabine) si erano già incrociate più volte a metà percorso tra la stazione della Circumvesuviana e la vetta, millecento metri più su. Le cronache riportano che si fosse arrivati alla diciassettesima corsa. All'improvviso la cabina che stava completando il percorso discendente, probabilmente per la velocità troppo elevata, si sganciò dal cavo portante in prossimità del primo pilone e precipitò sui binari sottostanti, proprio davanti all'imboccatura del tunnel ferroviario. Dei 35 passeggeri: quattro ebbero la peggio, compresi il conducente e un bambino di 9 anni. Trentuno i feriti estratti dalle lamiere o sbalzati fuori dalla cabina dal violento impatto col suolo. Chiuso per due anni, l'impianto fu riaperto nel 1962 con l'illusione, fondata sui progressivi aggiornamenti tecnologici, e resistita 63 anni, che l'incidente non si sarebbe ripetuto.
Mai più. E, invece, la storia ha riservato al Faito un altro mortale sberleffo. Con la sola differenza che stavolta la tragedia si è consumata in vetta. Certamente in questo momento di lutto, con le vittime ancora da piangere, sarebbe di pessimo gusto soffermarsi sulle conseguenze sul futuro della montagna. Ma, almeno, va evidenziato che il destino di quest'ultima è stato sempre connesso con quello della funivia. Non è un caso che uno dei periodi più bui per il Faito si è registrato nei quattro anni, dal 2012 al 2016, di chiusura dell'impianto per mancanza dei fondi necessari alle opere di manutenzione straordinaria. Dalla riapertura era iniziata una lenta risalita. Della quale, giochi di parole a parte, proprio la funivia si era rivelata un pilastro decisivo. Il punto più basso della storia recente ha però una data precisa: 10 agosto, ancora una volta il mese centrale dell'estate, del 1996. Una bimba di 3 anni, Angela Celentano, durante una gita con la propria famigliola, scomparve nel nulla. Dissolta, svanita, evaporata. Le ricerche andarono avanti per molti giorni: nessuna traccia utile a ricostruire l'accaduto. L'eco della sparizione della piccola fu enorme. Per molti appartenenti alla piccola comunità locale si trattò di una vera e propria mazzata per l'attrattività di quella che era stata, fino ad allora, sempre considerata la montagna dei bambini, il luogo dei pic nic, delle partite di pallone, delle passeggiate a cavallo. Provò qualche anno dopo Mario d'Urso, brillante dominatore delle cronache mondane dell'epoca, ma anche senatore del collegio di Castellammare e soprattutto finanziere con importanti relazioni internazionali, a tentare un rilancio di immagine. Accompagnò al Faito l'allora patron della Valtur Carmelo Patti e la figlia Maria Concetta per mostrare alcuni immobili pubblici dismessi. L'imprenditore siciliano manifestò un sincero interesse, facendo balenare la possibilità di realizzare un insediamento proprio sulla vetta. Ma poi, all'atto pratico, non se ne fece nulla. Fu l'ennesima occasione persa. Dopo la dissoluzione dei sogni di gloria degli anni Cinquanta e Sessanta, alimentati dal pragmatismo visionario dell'ingegnere Ivo Vanzi, determinato a trasformare l'altipiano sulla vetta in una sorta di Svizzera del golfo di Napoli. E in effetti, a quegli anni risale addirittura la realizzazione di una piccola pista di sci, con tanto di impianto di risalita di cui resta ancora visibile l'argano arrugginito. Una piccola Vancouver con vista sul Vesuvio. E c'erano il centro ippico, sede di un importante gran premio, il cinema, la stazione dei carabinieri e tanto altro. Nei racconti e nelle leggende locali, tramandate spesso solo oralmente, il monte è stato sempre ammantato da un alone di mistero. Un alone nato nella notte dei tempi, risalente alle nebbie dell'Alto Medioevo in cui si narra che San Michele Arcangelo scacciò da quei luoghi Satana che provava a tentare san Catello e sant'Antonino appartati in preghiera. E la ciampa del diavolo, cioè l'impronta del demonio in fuga, ancora ora è visibile proprio nei pressi dell'antro cosiddetto di san Catello. Sul posto anche una sorgente d'acqua, che, si dice, sgorgò proprio quando la lancia dell'Arcangelo si conficcò nella roccia. A Faito si respira ancora quest'atmosfera magica e misteriosa, i luoghi raccontano di arcani del passato, in un contesto, talvolta maestoso, talvolta inquietante, pur sempre affascinante, che sarebbe la degna location di una serie fantasy. Ma l'ultimo capitolo della storia millenaria della montagna incantata ci riporta, con angoscia, alla più brutale delle realtà.
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