di Mario Rusciano - Il Corriere del Mezzogiorno
L'anno che si chiude non verrà rimpianto da lavoratori e sindacati. Restano infatti irrisolti i maggiori problemi del lavoro. Checché ne dica il Governo: incline alla propaganda, guarda il bicchiere «un quarto» pieno, trascurando il vuoto degli altri «tre quarti». Enfatizza genericamente l'aumento dell'occupazione, dovuto soprattutto al rinvio dei pensionamenti e ai tanti part-time involontari. Per il Governo conta solo la statistica: quantità non qualità del lavoro. Che infatti è aumentato nei servizi e diminuito nell'industria manifatturiera, dove anzi imperversano crisi d'impresa e licenziamenti collettivi. Ovviamente ne soffre più il Mezzogiorno. Qui molti lavoratori sono mobilitati davanti l'azienda giorno e notte per difendere il loro lavoro. Nell'aumento «drogato» dell'occupazione spicca il concetto di «lavoro povero», mentre permane l'alto livello di disoccupazione di donne e giovani al confronto tra paesi europei. Preoccupante inoltre in quest'anno l'aumento fuori controllo degli infortuni sul lavoro e del numero di vittime. L'ultima scivolata del Governo è la norma della finanziaria che cinicamente voleva negare ai lavoratori il diritto all'adeguamento delle basse retribuzioni negli anni passati. L'avevano chiamata «norma salva-impresa» ma dovevano chiamarla «norma contro il lavoro sottopagato» o «premio allo sfruttamento del lavoro».
L'intervento di Sergio Mattarella l'ha tirata per i capelli fuori della finanziaria. Non ci volevano sapienza giuridica ed esperienza politica del Capo dello Stato per capire quanto una simile norma fosse contraria al 1° comma dell'art. 36 della Costituzione: «il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa». È sconcertante che i Ministri specie se «del lavoro» conoscano poco la Costituzione, sulla quale peraltro hanno giurato appena nominati (senza averla letta? ). Eppure l'art. 36 è noto persino a studenti di Legge, poiché gode d'una copiosa e consolidata giurisprudenza (di merito, Cassazione e Consulta). Risale addirittura ai primi anni '50 del 900 la giurisprudenza per cui il Giudice garantisce un «salario proporzionato e sufficiente» ai lavoratori che ne facciano richiesta. Egli applica la parte retributiva d'un contratto collettivo non rispettato, o ritien e nulla la clausola inadeguata financo d'un contratto collettivo (come oggi avviene di frequente per i «contratti-pirata»). D'altronde per l'ignoranza dell'art. 36 e anche perché proveniente dall'opposizione il Governo ha contrastato la proposta di legge sul «salario minimo legale». Voleva salvaguardare la contrattazione collettiva senza però metterla nella condizione d'operare efficacemente. Sfugge agli attuali governanti che, nella società consumistica, il «reddito» dei singoli cittadini cioè la «retribuzione» per i lavoratori dipendenti (o magari formalmente autonomi) determina lo status sociale delle persone. Nel senso sia dell'eguaglianza tra esse sia della dignità del singolo. Ma, ben al di là di questi fattori non banali, il reddito da lavoro determina altresì la «motivazione» dei singoli lavoratori e quindi la «produttività» dell'impresa nel suo complesso. In pratica, è nell'interesse sia degli imprenditori sia della collettività. Se ciò sfugge ai governanti, non sfugge agli imprenditori. Tant'è vero che a metà dicembre ed è questo l'unico dato positivo dell'anno che si chiude il Presidente di Confindustria Emanuele Orsini ha stabilito, nella massima discrezione, interessanti contatti con le Confederazioni sindacali storiche (Cgil, Cisl, Uil) per portare avanti tramite appositi tavoli tecnici l'ipotesi di concludere intese per un nuovo «Patto della fabbrica» e per una proposta di legge sulla rappresentanza sindacale. Indispensabile ma il Governo non lo sa a rendere seriamente operativa la contrattazione collettiva e a contrastare la concorrenza sleale, per gli stessi imprenditori seri, dei «contratti-pirata». Pare che la descritta iniziativa di Confindustria venga seguita anche da altre Confederazioni imprenditoriali. Ciò vuol dire che s'è finalmente capito che solo un grande accordo tra parti sociali da portare al Governo è capace di far crescere il Paese. Il Governo sembra non esserne consapevole: non allestisce alcuna politica industriale da concordare colle parti sociali né appresta dosi massicce di formazione dei lavoratori per adeguarne la professionalità all'enorme trasformazione del lavoro e all'incalzare dell'intelligenza artificiale. Invece bistratta i lavoratori perché li preferisce poveri, diffida dei sindacati e cerca di dividerli, sicché i rapporti tra Confederazioni non sono idilliaci. Perciò un'intesa tra le «sole» parti sociali può segnare una svolta storica. Sentiero irto e stretto, ma unica via d'uscita dalla crisi economico-sociale nel confuso e cupo quadro nazionale e internazionale che abbiamo davanti.

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