di Antonino Siniscalchi – Il Mattino
«Cinquant’anni fa, quando cominciai a parlare di Dieta mediterranea, fui etichettato come visionario. Nella mia vita ho avuto il coraggio di sostenere che i nostri prodotti hanno potenzialità uniche e irripetibili». Alfonso Iaccarino parla dalla sua tenuta “Le Peracciole”, a Punta Campanella, dove ogni mattina lui e la moglie Livia si dedicano con la consueta passione alla cura degli orti e degli ulivi che sono alla base della sua cucina. I figli Ernesto e Mario sono in giro per il mondo per consolidare le peculiarità del marchio “Don Alfonso 1890” che parte da Sant’Agata sui due Golfi e approda a Macao e Saint Louis. La conferma della cucina italiana come patrimonio immateriale dell’Unesco non lo sorprende: «È la certificazione di una verità che portiamo avanti da sempre», dice sorridendo. Chef Iaccarino, cosa rappresenta il riconoscimento Unesco? «La conferma di un’esperienza che poggia su basi solide e concrete. La cucina italiana non è soltanto un insieme di ricette: è la storia di comunità che hanno saputo trasformare il territorio in cultura gastronomica. È il frutto di gesti tramandati, di prodotti coltivati con rispetto, di una socialità che passa per la tavola. L’Unesco non ha premiato solo un gusto, ma un modo di vivere». Lei è stato fra i primi a intuire il valore universale della Dieta mediterranea. Quanto è stata difficile quella battaglia culturale? «Molto. Quando cominciai a parlarne, negli anni Settanta, mi guardavano come un visionario. All’epoca la moda era guardare all’estero, all’esotico, al sofisticato. Io invece insistevo sulla forza dei nostri prodotti: l’olio extravergine, il pomodoro, gli ortaggi, la pasta di grano duro. Dicevo che lì c’era un patrimonio irripetibile, e non sempre venivo compreso. Ma credevo profondamente nella nostra identità e ho continuato a sostenerla».
Ricorda i suoi primi viaggi di promozione della cucina italiana all’estero? «Come potrei dimenticarli? Partivo con due valigie: una per gli abiti da lavoro, l’altra piena di prodotti. Olio dop, pomodori, mozzarella di bufala, pasta di Gragnano… Mi sembrava di portare con me un pezzo dell’Italia più autentica. Quando cucinavo, vedevo negli occhi delle persone stupore e gratitudine. Da allora ho capito che la cucina italiana aveva una potenza comunicativa incredibile». Quell’intuizione trova conferma nel riconoscimento Unesco. Che valore assume per lei? «È una soddisfazione immensa. Il riconoscimento diventa identitario: sancisce che la nostra cucina è un bene culturale condiviso, un linguaggio universale. E se penso che siamo riusciti ad aprire ristoranti nei cinque continenti, portando un’idea di cucina legata alla qualità, al benessere e alla socialità, mi emoziono. Questo traguardo è anche un premio alla tenacia di chi ha creduto nella Dieta mediterranea quando sembrava un’utopia». L’Unesco parla di cucina italiana come «miscela culturale e sociale di tradizioni», capace di favorire l’inclusione e il senso di appartenenza. Si ritrova in questa definizione? «Sì. La cucina italiana è un modo per prendersi cura di se stessi e degli altri. È amore, condivisione, rispetto per il proprio passato e per la terra. Ogni piatto racconta una storia e crea una comunità. Questo è il vero valore della nostra tradizione: non è mai chiusa, è sempre capace di accogliere e di unire. È questo che la rende unica al mondo». C’è un piatto che, più di altri, rappresenta la sua filosofia? «Gli spaghetti al pomodoro. Può sembrare banale, ma è il manifesto della nostra cultura gastronomica: pochi ingredienti, semplici, ma di qualità straordinaria. Se il pomodoro è stato coltivato bene, se l’olio extravergine è ottenuto da olive sane, se la pasta è fatta con il grano giusto, allora quel piatto diventa perfetto. Universale. È la dimostrazione che non serve complicare per emozionare». Che cosa significa essere un ambasciatore della Dieta mediterranea? «Significa difendere un modello di vita, prima ancora che di cucina. La Dieta mediterranea è equilibrio, stagionalità, moderazione, attività fisica, vita comunitaria. È una filosofia che mette al centro la persona e la sua relazione con l’ambiente. Quando la promuovo all’estero, io non porto solo un menu: porto un modo di intendere il benessere. Ed è straordinario vedere quanto questo messaggio sia attuale e necessario». Come immagina il futuro della cucina italiana? «Luminoso, se continueremo a coltivare i nostri valori. Il riconoscimento non deve farci adagiare, anzi: è un invito alla responsabilità. Ora che la nostra cucina è considerata patrimonio immateriale dell’umanità, dobbiamo custodirla con ancora più cura. Non significa chiuderla in una teca, ma proteggere l’essenza mentre evolve. La sfida dei prossimi anni sarà proprio questa: innovare senza tradire».

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