di Filomena Baratto
Vico Equense - Da una scritta passatami sotto gli occhi, e su cui ho riflettuto a lungo, è nata una considerazione sugli effetti dell’abbandono.
L’abbandono lo abbiamo provato tutti, prima o poi accade nella vita di essere abbandonati o abbandonare, sembra quasi una legge di compensazione e, dall’una e dall’altra esperienza, se ne esce cambiati. Diverse tesi psicologiche affermano che chi è stato abbandonato a sua volta ripeta l’esperienza abbandonando; o ancora che essere abbandonati renda incapaci di amare; o che l’abbandono non ci farà mai crescere.
L’esperienza si presenta a noi in modo diverso in base all’età e alla gravità dei fatti. Per abbandono parliamo di tutte quelle figure importanti della nostra vita che di punto in bianco abbandonano o vengono abbandonati. Può avvenire all’interno di un’amicizia, di una coppia, di affetti vari, dove tutto quello che era assodato viene messo in discussione.
Chi abbandona ha sempre un motivo valido, come d’altra parte chi viene abbandonato resta sempre senza parole, senza difesa, nel vuoto. La mia esperienza mi dice che l’abbandono fa bene là dove la persona che ci lascia non è in sintonia con noi e procura non solo disagio, ma anche effetti negativi a catena. Di solito non ce ne accorgiamo subito, ma dopo, rielaborando il tutto, ne abbiamo paura per come non ce ne siamo resi conto in tempo. Se accade da piccoli, l’abbandono è sempre una tragedia che si trasforma lentamente in qualcos’altro. Non vogliamo perdere quello che crediamo nostro e per sempre, e il problema è proprio questo, credere che tutto si abbia all’infinito. Un abbandono rende fragili ma poi ci rafforza, ci tempra, ed è una lezione per sempre. Difficile invece se accade da adulti, non siamo preparati, nell’età della stabilità, a perdere le cose per strada. Ma in verità si perde lungo tutto il percorso della nostra vita, senza distinzione tra quando eravamo piccoli e ora che siamo adulti. Si perdono indistintamente le persone che ci sono intorno per vari motivi e mai saremo capaci di affrontare la perdita come un fatto naturale. Perdere è sempre e comunque un fatto ineluttabile e doloroso della nostra vita, come tutte le cose che hanno vita e che pertanto giungono alla fine.
La perdita è come un esame per provare quanta forza abbiamo costruito in noi. A volte, guardando le perdite avute nel tempo, la reazione è diversa rispetto al momento in cui è accaduto. Siamo più maturi, responsabili e anche ragionevoli. Ma quando l’evento ci sovrasta, siamo le persone più fragili di questo mondo, non abbiamo più l’ appoggio su cui ci fondavamo poco prima.
Perdere ci pone anche in un atteggiamento di ricerca, per riavere quello che viene a mancarci e sono proprio questi due aspetti, tra l’altro di compensazione, che ci spingono in avanti come in una logica di dover perdere per trovare. Quando ho perso i miei nonni è stato uno shock. Per la prima volta mi sono sentita adulta al pensiero che non avrei avuto più un’altalena, né qualcuno che mi svegliasse di mattina con la colazione a letto, nè gli abbracci più calorosi mai ricevuti. Svegliarsi da un sogno, matura, segna. Quando ho perso per un bel po’ di tempo mio padre, la sua mancanza, mi ha procurato una tristezza che aveva l’aspetto di incapacità di voler bene per l’ingiustizia subita. Per me non c’era felicità possibile senza mio padre. A priori, vedevo un futuro buio. Nel corso del tempo questo ha significato costruire, fare sempre di più e meglio per poter ambire a lui, ad averlo, visto che credevo, nella mia testa di adolescente, di essere rifiutata, non voluta e che, solo se avessi dimostrato di essere all’altezza, lui sarebbe tornato da me. Quanto è durato questa tensione in me? Una vita! E’ finita quando l’ho incontrato di nuovo, ma poi mi sono accorta che anche ritrovandolo, non ero il centro dei suoi interessi prioritari, che non dipendeva da quello che ero diventata, né da quello che avevo sofferto, ma solo dalla sua vita, dalla sua responsabilità, da quello che desiderava personalmente. Anche l’amica del cuore ai tempi del liceo con la quale condividevo lo studio, lo sport, gli amici, le confidenze, di punto in bianco scomparve. Andò a vivere in un’altra regione, allontanandosi per sempre da me. Fu come perdere un prezioso riferimento e fu per me un vuoto incolmabile. L’abbandono può accadere volontariamente o accidentalmente e se volontario parte dalle fragilità, dai bisogni dell’altro, dal maturare e forse anche dal non capire bene cosa volere. Volere implica conoscersi, sapere ciò che è bene per noi, ciò che ci rende felici e desiderosi. A volte non si desidera nemmeno, visto che desiderare include una volontà. Quando mia madre mi ha abbandonato per sempre passando ad altra vita, ho capito in un baleno il significato della sua, quello che non avevo mai visto quando lei era viva. Ci vogliono rotture forti per crescere, a volte è come uno spezzarsi completamente per poi ricostruirsi e l’abbandono non è che lo spezzarsi in due. Non sempre spezzarsi fa male, a volte è necessario per non romperci completamente, dando inizio ad un’altra stagione più consona alla nostra crescita.
L’abbandono ci rende anche più sensibili, recettivi, attenti, a volte in ansia, a volte anche paranoici, in una sorta di vigilanza costante. Ci riportiamo sempre al male ricevuto davanti ai nostri occhi come un’ingiustizia che il nostro orgoglio non accetta. Ma quante ingiustizie a nostra volta facciamo senza nemmeno accorgercene? Si esce dalla sindrome dell’abbandono vivendo anche quello che provano gli altri e a non chiudendoci in un atteggiamento egoistico, pensando che quello che ci viene fatto sia sempre imputabile agli altri. A volte può dipendere da noi, dall’avere gli occhi chiusi o non voler sentire o per pigrizia non affrontare i problemi e allora sono gli altri a risolvere per noi.
L’abbandono non lo si capisce mai al momento, sempre dopo, come un film nel passato, dove quasi non ci riconosciamo. Non è vero che non si esce più dall’abbandono, si esce da ogni cosa, con la ragione ma anche con l’amore, l’unica fonte inesauribile per curare le ferite della vita.
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