Vico Equense - La pizzera “Vico Equense” di Via Andrea Verga, a Milano, era in realtà la storica «base» da cui partivano gli ordini di Domenico Branca, già ai vertici del clan reggino malavitoso. Il locale milanese è tornato agli onori della cronaca, grazie a una svolta che si è registrata in un’indagine per omicidio. Secondo la ricostruzione del Corriere della Sera, il tutto parte dai due fratelli Carratù. Un balordo Aniello e l’altro incensurato, Carmine, quest’ultimo ammazzato il 17 febbraio ’92 con 13 proiettili a testa, torace, addome e gambe: gli ultimi furono colpi di grazia a ulteriore spregio. Allora, le antitetiche fedine penali avevano «suggerito» agli investigatori lo scenario di uno scambio di persona. Doveva essere Aniello la vittima, per il suo «pedigree» criminale, la collocazione temporale del delitto (fu un anno di guerre di mafia e regolamenti di conti), e per il luogo dell’agguato, la via Ippocrate in quella Comasina «controllata» dal gruppo Coco Trovato-Flachi-Schettini, così influente da non potere non avallare un assassinio a «casa propria»(avallo che in effetti arrivò). Dopo venticinque anni, grazie all’intuitiva rilettura dei contenuti dell’inchiesta Rinnovamento confrontati con le vecchie dichiarazioni del pentito Vittorio Foschini, e grazie alla gran tenacia di un maresciallo, i carabinieri del Nucleo investigativo del tenente colonnello Michele Miulli hanno scoperto che quel commando voleva eliminare proprio Carmine Carratù.
«Colpevole» di aver protestato troppo. Per un giusto motivo ma con le persone sbagliate: gente protetta da Domenico Branca, già ai vertici del clan reggino Libri e padrone di piazza Prealpi e dintorni, compresa via Varesina, la strada dove al civico 66, che ospitava la concessionaria Fidauto, «nacque» il piano di vendetta. Appassionato di Volkswagen Golf, che acquistava regolarmente con i soldi dello stipendio, Carmine Carratù aveva comprato da Fidauto un modello usato, una Gti 1.8, senza sapere che il precedente proprietario non aveva mai pagato bolli e multe. I titolari della concessionaria non l’avevano avvisato e presto lui s’era ritrovato le ingiunzioni di pagamento. Carratù, che aveva un animo focoso e non chinava la testa, si era fatto sentire. Con il «risultato» di far arrabbiare Branca, che nella concessionaria aveva investito dei soldi e ne era, quote a parte, il vero «padrone». Stanco delle insistite lamentele di Carratù, il boss, che nel carcere di Asti dov’è ergastolano ha ora ricevuto questo ulteriore ordine d’arresto, aveva ordinato l’incendio della Golf di Carratù. Per inviare un messaggio e chiudere il discorso. Senonché pochi giorni dopo, quattro altre vetture della concessionaria, erano andate in fiamme. Mimmo Branca, pur in assenza di «prove», aveva giudicato quell’attentato una «risposta» dello stesso Carratù. Doveva morire. Dopo il massacro, l’Alfa Romeo 75 utilizzata dai killer fu parcheggiata a 70 metri dalla pizzeria Vico Equense in via Andrea Verga, storica «base» di Branca. L’abilità dei carabinieri, in un iter giudiziario difficoltoso per le ripetute richieste di «attualizzare» gli elementi investigativi, è stata per appunto quella d’indagare su un omicidio remoto, un «cold case», e «ricollocare» a Milano i movimenti di quella macchina, le posizioni e le telefonate di Branca e dei suoi alleati. Non è stato l’unico responsabile, il boss, e infatti gli investigatori ritengono l’abbia di sicuro aiutato Michele Mendolicchio (deceduto nel 2012, il 24 novembre, lo stesso giorno in cui Carratù avrebbe compiuto 44 anni). Lo «slancio» dei carabinieri ha permesso poi d’aprire un nuovo fascicolo, totalmente laterale: roghi dolosi di vetture e pestaggi ai danni di capi turno e capi reparto in stabilimenti della Mapei.Due gli operai indagati. Non accettavano i richiami dei superiori a lavorare con maggiore concentrazione.
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