sabato 7 aprile 2018

Se il grande fratello è uno di noi


di Filomena Baratto

Vico Equense - Siamo nell’era dell’immagine e della fotomania, diventata la nostra principale preoccupazione. La foto è un “must”, niente passa sotto i nostri occhi che non sia catturato per sempre, anche se, una volta scattata, passa in cartelle strapiene e chissà se mai capiterà di rivederla. Le foto si moltiplicano a vista d’occhio e l’ultima scalza quelle precedenti. Visitiamo i luoghi per fotografarli, blocchiamo i momenti per riprenderli, sempre con lo scatto pronto. A tutti capita di inviare un selfie e dimenticare che, con la foto, inviamo una serie di notizie di noi cui non diamo peso. Con l’immagine viaggiano dettagli, riscontri, bugie, incantesimi. Spesso anche un innocuo (così pare) selfie diventa una sorta di documento per dimostrare, provare, controllare, documentare. Per quanto sia un facile click, poi ne derivano conseguenze a volte spiacevoli. Un’amica mi ha confidato quello che le è accaduto. Una sua conoscente è andata a casa sua per un caffè.
 
Mentre lei va a prendere dei biscotti, l’altra scatta quattro foto alla sua casa, a quella parte di salone dove erano sedute. Uno scatto per immortalare due stupendi candelabri, una statua di Capodimonte, un mobile del ‘700 e delle tende sceniche. Poi mostra alla mia amica le foto di cui si compiace. Il motivo, le spiega, è quello di prendere idee per arredare la sua casa mettendo i mobili secondo il suo schema. Ci sarebbe da chiarire, a questo punto, che scattare immagini senza consenso, non è lecito. Quanto meno si dovrebbe chiedere il permesso. E non ci si può nemmeno comportare come se fossimo su di un set a riprendere le scene come se stessimo girando un film. Sembra quasi che viviamo per immortalare attimi. “Aspetta, riprendo questo” oppure “Fermati così, sei magnifica” come un rallentatore che fagocita il tempo. E anche l’immagine più spettacolare, in luoghi privati, non è un motivo valido per appropriarsene, col timore di non sapere se mai si vedrà un’altra scena simile. Ritornando all’episodio, qualche tempo dopo, la mia amica incontrò per strada una conoscente che la fermò e con grande enfasi si congratulava con lei per la bella casa. Le piacevano quei candelabri e quel mobile del ʿ700, per non parlare delle tende. La mia amica andava a ritroso con la mente per capire. Con tutta la buona volontà non ricordò di averla mai ospitata a casa. La situazione si protrasse ancora quando, dopo alcuni giorni, davanti alla scuola della figlia, una collega, parlandole della bella statuina di Capodimonte, le chiese se fosse d’accordo a prestargliela per il giorno della sua cena di beneficenza, per sistemarla sul mobile delle portate per il buffet. Parlava come se avesse sempre saputo che quella statuina fosse lì, normale chiedergliela e quasi arrogante nel caso in cui si fosse sottratta alla richiesta. Non ci capiva niente. La gente parlava di casa sua senza visitarla. Era veramente strano. Poi, come un’illuminazione, si ricordò degli scatti di qualche tempo addietro, immagini che sicuramente avevano fatto un giro ragguardevole e, indispettita, invitò la conoscente a bere qualcosa al bar. Quella mattina, Giulia non era proprio in forma e lei cominciò a tirare foto, qualcuna anche insieme, davanti al caffè, al mare, ai fiori, per immortalare il momento come piaceva fare all’altra. Quando Giulia si è poi vista su fb con le occhiaie, i capelli non perfettamente in ordine, la carnagione di un colore sbiadito, si è arrabbiata dicendole che la aveva postata senza chiederle il permesso. Ed è stato allora che anche Giulia ha capito, pur non menzionando mai delle immagini di casa sua, facendo buon viso a cattivo gioco. Attraverso i selfie e immagini varie passano notizie che violano la privacy, sempre che ne abbiamo ancora una. Dovremmo mettere giù il cellulare ed evitare scatti inutili o fatti solo per gonfiare la nostra vanità e l’ostentazione di mostrare quello che di più bello c’è o quello che a tutti i costi vogliamo che gli altri vedano. Così come accadde pure che la colf di altri amici fotografasse non solo la casa, ma anche gli abiti della padrona, uno a uno, per inviarli alla figlia e con lei discutere dei gusti, dei modelli e di quello che aveva la padrona. E ancora, una paziente che andava spesso allo studio del suo medico, fotografò tutte le piante del suo giardino, e poi strappava i rami dai vasi per piantarli a casa sua, lasciando che i rami rinsecchissero assottigliando la chioma. Si venne a sapere da un’altra paziente che a sua volta l’aveva ripresa. E ancora le videochiamate a casa di ospiti, che invadono in piena norma la privacy, senza porsi il problema che in quell’immagine entreranno i padroni, il loro ambiente, la loro vita. Forse anche qui bisognerebbe chiedere il permesso e non credere che, possedendo lo strumento ormai a portata di tutti, ci si possa arrogare il diritto di usarlo indiscriminatamente. Bisogna mettere un cartello davanti alla porta, accanto a quella del nome, dove si vieti, a chi entra, di non usare in casa altrui la tecnologia che porta al seguito, previo avviso e consenso da parte dei padroni di casa. Niente è normale se non si vuole e non tutto è concesso anche quello che sembra stupido e scontato.

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