Dostoevskij è uno dei più grandi autori della letteratura mondiale. Tutte le sue opere sono uno studio approfondito dell’uomo. Le pagine dei suoi romanzi si presentano a noi come spilli che pungolano, alcune ci strattonano fino a farci cadere, altre rovistano il nostro animo mettendolo a soqquadro. Fedor Dostoevskij nacque nel 1821 a Mosca, in una famiglia in cui si respirava un clima autoritario. Pur dedicandosi alla carriera militare, i suoi interessi erano rivolti alla letteratura. Nel 1841, appena promosso sottotenente, decise di dedicarsi esclusivamente alla scrittura. In seguito, accusato di partecipare a una società segreta, fu condannato al patibolo nel 1849, da cui fu sottratto dallo zar Nicola I che gli inflisse come pena i lavori forzati a Omsk, in Siberia. In quel periodo ripresero le sue crisi epilettiche. Il primo attacco arrivò dopo la morte del padre nel 1839. Intanto, aveva già scritto Povera gente nel 1846, Il sosia nello stesso anno e Le notti bianche nel 1848. Il romanzo che scava l’essere nelle sue profondità è Memorie dal sottosuolo del 1864. Il sottosuolo è l’abisso della coscienza, dove l’uomo è piegato da una sofferenza. In quel sottosuolo avviene una lotta furiosa tra principio negativo e positivo. L’uomo vive così nella tana della sua coscienza come uno scarafaggio. Si servì di questa metafora prima ancora di Kafka che, nel racconto Le Metamorfosi, trasforma il protagonista Gregor Samsa in uno scarafaggio. Freud non era ancora nato, bisogna aspettare il 1856, e L’interpretazione dei sogni fu pubblicata solo nel 1899, ma Dostoevskij analizzava già l’animo umano in ogni suo meandro.
La malattia di cui soffre l’uomo del sottosuolo è l’ipertrofia della coscienza. Che cosa fa l’uomo, raccolto in se stesso, se non rimuginare, considerare le parti del suo pensiero, individuare il bene e il male e, pur riconoscendolo, trovare sempre una giustificazione per andare al di là dell’evidenza. I ragionamenti portano a niente e l’unico ragionamento valido è il gesto. Ma il gesto non ha alcuna giustificazione, quella resta in noi. Il sottosuolo dell’uomo è dato dalla società e, al suo interno, ogni fallimento è riconducibile alla famiglia. La colpa peggiore del sottosuolo è di non assumersi la responsabilità delle proprie azioni. Con Delitto e castigo, del 1866, assistiamo alla messa in scena dell’uomo in tutta la sua grandezza e bassezza. Il protagonista, Raskolnikov, si convince che è giusto uccidere l’usuraia Aljona, perché un essere inutile. Ma con lei deve uccidere anche sua sorella Lizaveta, Un delitto che mette in subbuglio l’animo del protagonista. La difficoltà di leggere Dostoevskij è stare di fronte alla pagina da soli. Lì c’è il nostro sottosuolo, il taciuto, il pensato e quello che poi non facciamo o facciamo e di cui non ci assumiamo le conseguenze. In un momento ci porta alle stelle e in un altro ci fa sprofondare. Con Dostoevskij cerchiamo di sondare i nostri abissi che non finiscono mai di meravigliarci. Come arriva l’autore a conoscere così bene l’animo umano? Durante gli anni di prigionia in Siberia non poteva né scrivere né leggere, gli unici libri a disposizione erano i Vangeli. Dalla loro lettura capì che la fede è l’unica cosa che ci trasforma. Ma l’uomo è mosso solo da un gesto utilitaristico e in completa libertà. Ed è con la trasvalutazione di tutti i valori che Nietzsche è vicino a Dostoevskij. Riconosce in lui “suo fratello di sangue” con una critica ante litteram a se stesso, giustificando la concezione utilitaristica in quella del superomismo, cioè della libertà assoluta. Raskolnikov è il critico di se stesso quando percepisce di aver commesso un gesto abominevole. La centralità del romanzo è nel nichilismo di quest’uomo che assume diverse maschere e, assumendole, ha orrore della sua vita. Delitto e castigo è un romanzo filosofico poiché concentra le teorie del nichilismo, dell’utilitarismo e del superomismo, ma poi, una volta in scena il protagonista se ne stacca e le giudica. Ed è un romanzo criminale, con un delitto, un colpevole e un movente. Ma al di sopra di ogni concezione c’è il peccato. Il criminale trasgredisce alla legge, mentre il peccatore obbedisce alla coscienza, alla legge del suo cuore che non mente a se stesso prima ancora di non uccidere. Raskolnikov prima ancora che un criminale è un peccatore che raggiunge il livello più alto mentendo a se stesso. Quando si mente a se stessi si è pronti a qualsiasi infamia. Aleggia in tutto il romanzo un’ombra costante, un peso che incombe su tutti i personaggi, per concludere che la condizione umana è quella di sostare nel peccato. Ed è questa l’unica consapevolezza possibile, quella di aver perso anche il significato del peccato. E’ un lungo percorso che l’autore intraprende nelle sue opere a cominciare da Povera gente fino ai Fratelli Karamazov. Quest’ultimo romanzo è il capolavoro di Dostoevskij, scritto tra il 1878 e il 1880. E’ la storia di quattro figli nati da madri diverse e il loro rapporto con il padre, ma è anche la storia di un parricidio. Nel romanzo una pagina importante è la La leggenda del grande Inquisitore, in cui la domanda “Come possa un perfido animale, l’uomo, concepire l’idea di Dio”, diventa l’asse portante del romanzo. Ogni riflessione di Dostoevskij è riconducibile a quest’affermazione. L’autore è ossessionato da come Dio vive nell’esperienza dell’uomo e soprattutto si lamenta del libero arbitrio che gli ha concesso.
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