di Filomena BarattoL’immagine dell’auto da cui esce il cane, abbandonato di lì a poco, che tutti abbiamo visto sui media, ha provocato non poca indignazione. Che uomo sarà quello che inganna l’animale chiudendogli la portiera dietro? Con quale animo si appresta a lasciarlo in strada? Se in un primo momento avrà avuto un sollievo per “il coraggio” o per meglio dire per l’infamia, subito dopo avrà provato un senso di colpa. E nonostante questo possa attanagliarlo, non tornerà indietro a riprenderlo. Prevale in lui l’utilità del momento: andare in vacanza libero da ogni incombenza, finanche dal cane. Come se la vacanza fosse il distacco completo dalla vita, la sospensione di ogni nostra connessione col mondo. L’amara verità è che lo stesso uomo (e parliamo di genere umano) che lascia il cane in strada non si farà scrupoli a comportarsi così pure con le persone. Che affidamento può dare una persona del genere? Quale umanità può esserci in lui? Avrà pure cresciuto quel cane, magari si sarà anche divertito con lui e in poco tempo ha azzerato ogni rapporto con l’animale in nome della vacanza. Se abbiamo così bisogno della vacanza da dimenticare chi siamo, non penso che la stessa ci rimetterà in sesto. Prima di abbandonare il cane, assicuratevi del buon funzionamento della vostra scatola neuronale con tanto di sinapsi difettose per non fare, a vostra volta, la stessa fine del cane, relegati in qualche struttura a curarvi abbandonato da tutti.
Il cane lasciato per strada farà una brutta fine se qualcuno, mosso a pietà, non gli darà ospitalità. Questa storia me ne riporta alla mente un’altra.
Una volta avevamo un barboncino nero, allegro e giocherellone. Si chiamava Billy e viveva in simbiosi con noi. Nulla accadeva senza includere anche Billy. Ovunque andasse la famiglia, c’era anche lui, come un altro figlio. Un giorno accadde che io con le mie sorelle e mia madre uscimmo per compere. Era d’estate, faceva un caldo afoso e con noi venne anche Billy. Tornate a casa a ora di pranzo, decidemmo di andare al mare per un paio d’ore, questa volta lasciando il cane. Sulle prime mia madre voleva portarlo, poi si convinse. Al rientro, aprendo la porta, i nostri occhi non credevano a ciò che vedevano: tutto il corridoio era cosparso dei mille pezzi di sandali nuovi che erano costati tre giorni di ricerca e una cospicua cifra. Non c’era un solo pezzo che si potesse riconoscere. Davanti a noi si apriva un campo di battaglia. Non si erano salvate nemmeno le parti come tacco e suola e niente lasciava intendere che fossero i sandali se non avessi trovato la scatola vuota. Aveva triturato minuziosamente tutto. Mia madre montò una rabbia inverosimile e a quel punto non ci fu verso di farle cambiare l’idea di portarlo via. Quello che vedemmo non ci faceva spendere nemmeno una parola in sua difesa. Più che il lavoro di un cane sembrava quello di una tigre. Così lo portammo in macchina e faticammo molto per strappare a mia madre la promessa che lo avremmo lasciato solo se avessimo visto qualcuno prendersi cura di lui. Impiegammo tre giorni. Quando un signore lo prese con garbo e lo portò via, decidemmo di andare. Ogni pomeriggio tornavamo a controllare se realmente il padrone lo avesse preso in consegna: un lavoro laborioso poiché dovevamo stare distanti con la macchina per non indurre Billy a rincorrerci. Qualche anno dopo, in città, mentre sostavamo davanti alle vetrine, da lontano un cane ci venne incontro: era Billy. Lo riconoscemmo subito. Un momento imbarazzante ed emozionante: lo accogliemmo, accarezzammo, coccolammo senza proferire alcuna parola. Il padrone ci disse che era molto affettuoso, faceva con tutti così. Gli aveva assegnato un altro nome ma quando ce ne staccammo, all’unisono dicemmo “ciao Billy”, spiegando che assomigliava al nostro che aveva quel nome. A quel punto mia madre ebbe un cedimento, voleva andare a riprenderselo, rivoleva il suo cane, ma glielo impedimmo. Quando sentivamo la sua mancanza, andavamo al parco e attendevamo che scendesse se non era ancora lì e lo guardavamo da lontano mentre giocava con i bambini e si divertiva. Abitudine che durò parecchio ma poi decidemmo di finirla, dovevamo pur staccarcene. Il giorno in cui lo incontrammo in strada tornammo a casa piangendo e capimmo che un momento di rabbia non poteva finire così. Se solo mia madre lo avesse capito prima, avrebbe perdonato. Anche in quel caso prevalse la logica: aveva oltrepassato ogni limite e andava punito. La punizione, come accade anche con gli uomini, si ripercuote su tutti e non è mai un metodo educativo vincente. Tutti fummo puniti dal perdere Billy.
Nessun commento:
Posta un commento