di Filomena Baratto
Vico Equense - Mio nonno lavorava come un bruto da mattina a sera. Arava, raccoglieva i prodotti del terreno. Allora vederlo a lavoro era normale, ma oggi che tutta la sua vita mi è chiara, mi chiedo quali fossero i suoi sogni o se ne avesse. Lavorare per cosa? Col tempo ho capito che quello che faceva rappresentava la sua aspirazione più grande: coltivare il suo podere, conoscere le stagioni, i tempi per mietere e per seminare, i cambiamenti atmosferici, i concimi, le lotte con gli insetti che mangiavano il raccolto. Un Virgilio ante litteram che se avesse conosciuto avrebbe detto che le Georgiche e le Bucoliche, tutta roba di poco conto rispetto alle sue conoscenze in relazione ai campi. Quel lavorare in modo così energico non era un peso, ma la sua passione, quello che meglio sapeva fare, il suo sogno, dopo aver combattuto e patito la fame. Ma mentre lì, nelle Bucoliche, molti persero i loro poderi per la distribuzione delle terre ai veterani dopo la battaglia di Filippi, nel 42 a. C., il nonno, di ritorno dalla guerra, ritrovò i suoi “dulcia arva”. Il suo sogno era quello di tornare a casa e dedicarsi ai campi. La vita è come un libro, e vanno letti tutti i capitoli, solo così si capiscono le motivazioni che spingono gli uomini a determinate azioni. Quando lo vedevo lavorare nei campi, credevo fosse un uomo privo di aspirazioni, senza sogni, ma non conoscevo il suo passato. Riemergeva da indizi sparsi qua e là per la casa che raccontavano di un soldato che aveva combattuto egregiamente per la patria, tornato a casa malato di malaria.
Il lavoro non deve essere lo svolgimento meccanico di una attività, deve creare benessere interiore, risvegliare la passione ogni giorno. Oggi questo è appannaggio di pochi, molti devono accontentarsi del lavoro che trovano senza possibilità di scelta. Nessuno rifiuta un posto di lavoro, serve per vivere ma si finisce poi solo a vivere per lavorare. Sarà anche vero che nobiliti l’uomo, ma quello non adatto, senza spazi per altro, è pura alienazione. I sogni non finiscono mai nella vita di un uomo, ce ne sono a tutte le età. Aiutano a vivere, a rendere possibile l’impossibile, a indirizzare anche il quotidiano, a farci costruire mondi che non potrebbero esistere. Quando mio nonno era in trincea, la sua forza la traeva dal suo unico sogno: tornare a casa. Non aspirava ad altro. E il fatto che io lo prenda a modello di lavoratore è per quello che mi ha insegnato col suo stile di vita. Qui i sogni hanno valenza di progetti da realizzare, di possibilità a cui dare vita. Alimentare i sogni e fare progetti significa stare bene. Una volta era il lavoro ripetitivo di fabbrica ad alienare, oggi è il tempo che manca con un lavoro che fagocita anche l’ultimo respiro. Quali sogni costruire in un percorso lavorativo dove è già tanto se resti al tuo posto per anni? Leggi spietate, soprusi di ogni genere, alienazione dieci volte quella della fabbrica di una volta. Ovviamente con tutte le eccezioni dovute. Si dovrebbe aver il coraggio di svolgere solo quello che piace, appassiona. Oggi si è inappagati, oberati da responsabilità con lavori alienanti e alcuni più degli altri. Se è vero che la Repubblica è fondata sul lavoro, che ancora non tiene conto dei ritmi dell’uomo e dei suoi tempi, semmai l’inverso. Il lavoro cade a pioggia e ti ritrovi che da ingegnere insegni e da insegnante ti dai al commercio, che da artista sei dipendente e da medico finisci a riempire carte come un normale impiegato invece di esplicare la tua vera professione che è quella di fare anamnesi e curare la gente. Molti lavori non hanno nemmeno più senso di esistere tanto sono meccanici da ridurre anche l’uomo ad una macchina. E quale qualità di lavoro posso assicurare in queste condizioni? E poi al posto del nostro bioritmo seguiamo le scienze esatte: le statistiche, i cui numeri vanno interpretati, vanno tradotti in parole. A volte anche le stesse parole: cosa significa molto, abbastanza, poco, per niente? Una volta redatte, si prendono provvedimenti, si migliorano le condizioni dei lavoratori? A che servono se continua il malcontento? A volte servono solo a sottolineare gli avanzamenti del capo, per motivare i budget aziendali, ma non ci si accorge del malessere in cui vive il lavoratore dell’era moderna. Da nessun sondaggio si evince il malcontento del dipendente trattato come una macchina e privato di quella umanità che è il suo segno ineludibile. Abbiamo il pregiudizio che il dipendente obbediente tragga il meglio di sé con a capo un buon tiranno mentre un padrone debole lo rende rilassato e nullafacente. Sin dalla rivoluzione industriale il rapporto tra tempo lavoro è diventato così stretto che ha consumato anche il lavoratore col suo frazionamento stile tayloriano. Siamo passati dal lavoro artigianale alla piaga dei call center, il lavoro più alienante che esista oggi. In mezzo l’uomo senza tempo, senza sogni, senza progetti. E se anche ci fossero, se si continuassero a fare, i ritmi non li assecondano. Siamo avvolti dalle spire delle economie, dell’impiegare la giornata pienamente svuotando sempre più quel che resta di noi.
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