Massaquano |
Vico Equense - Il mio primo bar è stato quello di mio nonno in piazza a Massaquano. Non aveva un nome, la scritta fuori diceva solo “Bar”, luogo di giochi, di caffè, di dolci, di liquori, caramelle. A me piacevano solo i sciu sciu e quelle piccole a liquirizia. Quello di mio nonno era un emporio, poteva vendere articoli di ogni genere, ma è sempre stato solo un bar. Mio padre faceva un ottimo caffè ed era un brillante intrattenitore…soprattutto di ragazze. Lì dentro c’era vita ed io ero un’osservatrice attenta. Ma più di tutti chi portava avanti il bar era mia nonna, una donna energica e di “cervello” che girava per i tavoli da gioco a sollecitare il consumo delle bevande, a ispezionare, a riprendere i chiassosi e a mettere gassose al centro con la speranza che bevessero. Al suo passaggio i tavoli si riempivano di boccali di birra, di vino, di liquori. Quando la sala era satura di fumo e sapeva di alcool, solo allora lei se ne andava nel retrobottega,sicura che la serata che procedeva bene. Dopo qualche oretta, era sempre lei a passare per i tavoli e a dare l’ultimo saluto della giornata, anche se era già notte fonda. Erano gli anni 60. Ho ancora nelle orecchie le canzoni di Gianni Morandi e Little Tony che mio zio canticchiava guardandosi allo specchio e io mi divertivo da morire a guardarlo. E mentre cantava, maneggiava con destrezza le tazze nel lavandino, e poi ne udivo il tonfo di quando le appoggiava sul bancone a ritmo continuo e abitudinario. Quando ero lì, gestivo le caramelle poste nelle ampolle di vetro, mi divertivo a prenderne manciate solo per contarle e rituffarle dentro, mentre non mi piacevano quelle con lo zucchero che mi lasciavano le mani appiccicose. Mi chiedevano di incartare le caramelle o di contarle e aiutavo nonna in questi piccoli gesti. Sin da piccola chiedevo perché questo luogo si chiamasse bar, ma nessuno me ne dava spiegazione.
Il termine bar deriva dalla parola inglese “barrier”, sbarra, che divideva chi serviva da chi beveva al banco. Ma lo stesso termine significa anche l’angolo riservato alla vendita degli alcoolici. Il nome racchiude entrambe le accezioni. Conosco bene la vita nel bar, i movimenti e le ansie di chi deve servire, quello che si dice nel retrobottega, le corse per riempire le vetrine del bancone. Allora al bar ci si andava per fare una partita a calcio balilla e a raccontare sottovoce agli amici i pettegolezzi o le cose da uomini. Ho ancora piene le orecchie del suono delle stecche da biliardo che mandavano la palla a destra e a sinistra prima di finire nella buca. Vedevi gli uomini distesi sul biliardo a misurare la mossa con un gioco di mani per non sbagliare il tiro, mentre io seguivo la partita dal mio banco delle caramelle e, solo a sentire lo schiocco della palla che cadeva nella buca, mi rendevo conto dei passaggi tra di loro e come proseguiva la partita. Altri tempi o solo ricordi. Oggi il bar è un luogo per una rapida consumazione: un caffè, un cappuccino, un cornetto al volo, una lettura rapida di giornale e via. Il bar rappresenta un punto d’incontro, un luogo per socializzare, dove leggere in santa pace, incontrare amici, o stare solo a guardare il movimento della piazza, lo scorrere delle macchine, per allentare i ritmi e gustare la lentezza. E come dice Milan Kundera “c'è un legame stretto tra lentezza e memoria, tra velocità e oblio”. Si ha l’impressione che stando seduti a guardare in silenzio si possa essere padroni delle cose e viverle meglio. Ma ci sono anche bar dove la vita scorre tranquilla, con clienti abituali, magari che vanno lì ad una certa ora, a prendere il loro caffè in santa pace, a scambiare quattro chiacchiere col barista e ad assecondare i propri ritmi interiori fuori dalla massa. Ci sono i bar frenetici dove il personale di servizio corre da una parte all’altra non riuscendo a smaltire gli ordini della clientela, con un fare frenetico, con un vociare continuo, con rumori e suoni di canzoni, a cui si alternano il battere della cassa e la voce del barista di turno che prende l’ordine. Basta questo frastuono mattutino per immergersi a pieno ritmo nella nuova giornata. Un tipo di bar con ritmi tutti suoi è quello di paese, con tavoli sistemati anche su un piccolo pezzo di marciapiede, in una calma piatta esagerata e dove tutti danno l’impressione di un dolce far niente. Abitudine tutta nostrana quella di poltrire anche su di una sedia al bar dove ci si accomoda né per pensare né per leggere, ma solo per passare il tempo, per “ammazzarlo”. Passando davanti a questi bar così come quello di quando ero bambina, mi chiedo cosa facciano gli uomini seduti a guardare le auto passare, a fumare, come se fossero spettatori in un cinematografo. Da questi atteggiamenti si può ben arguire il tipo di persona che ci si trova davanti che forse vuole solo rallentare la vita per mille motivi, un cedere alla stanchezza psichica più che fisica, per mancanza di interessi o forse anche per aver vissuto tanto e non volere più correre dietro ad alcun sogno. A guardare questi uomini “lenti” ci si chiede anche se la nostra vita frenetica abbia più senso della loro o ci renda più immuni alle ferite della vita. Il bar, che se ne dica, è sempre un luogo vitale, nevralgico, dove in una sala ricca di aroma di caffè, cucchiaini e tazze che si toccano e bicchieri volanti per il bancone, si trattengono confidenze, sorrisi, sorsi e chiacchiere, incontri e parole di circostanza. Sembra il contenitore del buon umore e, a seconda della fascia oraria in cui si entra, si hanno registri di conversazione diversi che spaziano dal cibo, all’ora di pranzo, ai progetti per la giornata, di primo mattino, o alle conversazioni su come si è svolto il lavoro, nel pomeriggio. E’ il luogo dell’espresso e del rifocillarsi, delle risate, del giornale letto con una sfogliata rapida, della sigaretta e di un buon dolce. Un luogo che è entrato nella nostra vita per essere il più frequentato, il più allegro, necessario e forse viene anche prima dell’ufficio, nostra gabbia quotidiana. Ci rende la vita meno pesante con una “tazzulella di caffè “ a tutte le ore, quasi avesse l’elisir per continuare i nostri tour de force giornalieri.
Filomena Baratto* è nata a Vico Equense. È laureata in Lettere Moderne all’Università Federico II di Napoli e insegna nella Scuola Primaria da 29 anni. Sin da piccola ha manifestato una spiccata propensione per l’arte, a cominciare dalla pittura, talento a cui si aggiunge anche la musica con lo studio del pianoforte. A queste sue passioni unisce anche la scrittura. Inizia a pubblicare nel 2010 in seguito a un evento familiare che la scuote profondamente e che le dà la spinta a pubblicare la raccolta di liriche Ritorno nei prati di Avigliano, Alberti Editori. Segue poi, nel 2012, il romanzo Rosella edito da Sangel Edizioni e ancora la raccolta di racconti Sotto le stelle d’agosto, Graus Editore nel 2013.
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