Scegliere di morire deliberatamente è un gesto estremo che lascia sgomenti. Per metterlo in atto richiede una volontà e una forza. Il Cristianesimo condanna il suicidio con il quinto comandamento: non uccidere. San Tommaso d’Aquino ne spiega le motivazioni: si pecca contro se stessi, contro la società e contro Dio. La religione e la legge non bastano, però, a evitarlo. Il suicida attraversa un tormento interiore cui non sa dare una risposta. Ci vorrebbe una forza contrastante pari a quella che l’ha provocato per evitarlo. Un amore finito, un dolore inconsolabile, una sconfitta non accettata, un male fisico che divora le forze e l’animo possono diventare promotori di azioni nefaste. Una debolezza mentale che fa sragionare porta agli stessi esiti. E’ proprio la perdita di senno, in preda alla disperazione, a dettare il gesto. Non sempre ci si accorge dei mali che affliggono gli altri, anzi, di solito, si tende ad allontanare le persone deboli. Nell’Etica Nicomachea, Aristotele definisce il suicidio come un’offesa nei confronti degli altri. E se da una parte i Greci lo tenevano in pessima considerazione, dall’altra lasciavano all’individuo decidere della propria vita. Il primo suicidio avviene in Sofocle con l’Edipo re, dove Epicasta, madre e moglie del re, si toglie la vita per non sopportare l’avvenuto incesto. La tragedia di Sofocle gravita intorno a “un uomo eroico nella sua essenza d’infelicità”. L’uomo, nella sventura, mantiene intatta la nobiltà.
I Romani davano al suicidio una veste d’onore, un modo coraggioso di finire la vita soprattutto quando era in gioco la propria virtus. Dante, nel tredicesimo canto della Divina Commedia, pone i suicidi nel settimo girone dell’Inferno. Sono anime imprigionate negli alberi per aver lasciato violentemente il proprio corpo. Le Arpie che si nutrono delle piante, strappando i rami degli alberi, procurano sofferenza ai dannati che si lasciano andare a lamenti e parole: “Perché mi scerpi? Non hai tu spirto di pietà alcuno? Uomini fummo, e or siam fatti sterpi: ben dovrebb’esser la tua man più pia, se state fossimo anime di serpi”. Shakespeare infligge questa pena a molti dei suoi personaggi, grandi e piccoli delle sue tragedie come extrema ratio a una solitudine indicibile. Così per Otello, Macbeth, Ofelia, Marco Antonio, Bruto, Giulietta, Romeo. Nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis di Ugo Foscolo, romanzo epistolare pubblicato nel 1801, il protagonista, nelle missive all’amico Lorenzo Alderani, parla del suo amore impossibile per Teresa che è andata in sposa a Odoardo e della delusione per il trattato di Campoformio nel 1799, con cui Napoleone cede Venezia all’Austria. Jacopo è spinto verso la morte da una tensione distruttiva che lo conduce alla rottura di ogni rapporto col mondo. Già prima, nel 1774, Goethe aveva dato alle stampe il romanzo epistolare I dolori del giovane Werther in cui il protagonista si toglie la vita per amore di Lotte, la sua Charlotte che è promessa ad Albert, quanto basta per scatenare la gelosia di Werther. Qui non c’è riferimento politico ma la delusione amorosa porta alla tragedia. Il libro ebbe ripercussioni notevoli con un aumento di suicidi in quel periodo tanto da ritenere il testo pericoloso. L’autore cercò di arginare il fenomeno apponendo un’avvertenza «Sii uomo e non seguire il mio esempio». Aggiunse anche una nota dove si affermava che il protagonista soffriva di depressione. La letteratura segue i suoi canoni, la realtà, le tempeste della vita. E non basta approfondire clinicamente con un’anamnesi del soggetto per prevenire le mosse di un presunto suicida. Così come le sue fragilità possono presentarsi impercettibili e silenziose con momenti d'isolamento senza che gli altri se ne accorgano. Ci sono poi implicazioni caratteriali, culturali, di storia familiare che sono imprescindibili per definire il caso. Anche una conoscenza approfondita dell’ambiente intorno, delle persone e dei loro atteggiamenti, con le loro azioni e reazioni può indurre la persona debole a simulare gli avvenimenti che succederanno e, non sopportandolo, finire nel vortice della propria fine. Il sociologo francese Emile Durkheim afferma che l’insieme dei suicidi, verificatosi in una data società e in un determinato arco di tempo, non sia una semplice somma di unità indipendenti, bensì un fatto sui generis, con una propria natura essenzialmente sociale, indipendente dalle decisioni individuali delle persone che si suicidano: «ogni società è predisposta a fornire un contingente determinato di morti volontarie» Sono tre per il sociologo i tipi di suicidi: quello altruistico quando l’individuo antepone regole, valori morali e gruppo di appartenenza alla sua esistenza; anomico quando la società non può offrire norme morali coerenti e ben strutturate nei periodi di crisi e cambiamenti sociali; egoistico quando l’Io prevale sulla società per una debole integrazione. E’ stato dimostrato, da un rapporto dell’OMS, che le persone che si sono suicidate si erano rivolte, nelle settimane precedenti al gesto, al proprio medico o ai servizi. E’ questo il momento in cui agire e dare alla persona che si sente senza speranza il sostegno di cui necessita. Già il fatto di condividere le proprie idee riduce l’ansia e favorisce la possibilità di trovare una soluzione. Chi sta intorno alla persona ha la responsabilità di agire e trovare il tempo dell’ascolto, indispensabile come quello di raccontarsi per liberarsi dalle tensioni. Dare ascolto e riceverlo sono due momenti fondamentali in ogni relazione. “E la natura, si dice, ha dato a ciascuno di noi due orecchie ma una lingua sola, perché siamo tenuti più ad ascoltare che a parlare - afferma Plutarco nella sua opera L’arte di ascoltare. - Molti sbagliano perché si esercitano nell’arte del dire prima di essersi impratichiti in quella di ascoltare”. Il neuropsichiatra Eugenio Borgna afferma che per tanto tempo si è relegato il suicidio nella follia, come non volendo saperne nulla, come negandone ogni senso. Non tutti i suicidi, dice Borgna, sono riconducibili a malattia mentale. Piuttosto a una strutturale mancanza di speranza, non conosciuta, non incontrata in famiglia, a scuola, tra gli amici. Speranza che non è da confondere con un ottimismo, che potrebbe anche essere vano. Speranza, disse Kierkegaard, è “passione del possibile”, apertura a un futuro che non conosciamo e spesso indipendente da noi. Ma la speranza per Eugenio Borgna è anche un dovere verso l’altro, in una dimensione necessariamente di comunione: «Abbiamo l’obbligo morale di non lasciar morire la speranza in noi per farla rinascere in chi l’abbia perduta, e in questo senso la speranza ha un valore rivoluzionario: ci inquieta, ci libera da pregiudizi che non ci consentono di cogliere la realtà nella sua spontaneità e nella sua ricchezza umana».
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