di Filomena Baratto
Le epidemie fino a qualche anno fa le avevamo studiate, mica provate? La mia generazione ricorda quella di colera del 1973, le varie influenze pericolose di questi anni: Mers, Sars, Suina, Ebola, fino ad arrivare alla Spagnola negli anni 1918-20 raccontata dai nostri nonni. Il nostro immaginario è carico di scene di lazzaretti, di peste nera, bubbonica, del Norico, di Atene… Quelle letterarie poi sono ricche di pathos, di paura, di fede. E quegli scenari, solo visitati, sono diventati realtà. Nel 2020 abbiamo ancora le epidemie riconducibili a una natura che non conosce leggi umane ma solo quelle della conservazione della specie, del suo percorso biologico e fisico. E noi che ci illudevamo di poterla piegare ai nostri bisogni e di esserne al di sopra! Per Leopardi vi è impossibilità di conciliare civiltà e natura. Essa scuote il suo manto e fa capire chi comanda seriamente qui, da secoli, da che mondo è nato. E se affina sempre il modo di colpirci, noi continuamente la sfidiamo senza capire che con lei condividiamo l’esistenza. Da alcuni mesi il virus ci sta facendo guerra. Si stabilisce nelle nostre stanze, vi alberga per un bel po’e poi decide se esacerbare la lotta, limitarsi a convivere o farci soccombere. Ci apporta immobilità, irrigidimento mentale, restrizioni, preoccupazione, perdita della serenità, ossessione. Come quando un flipper lancia al massimo la sua pallina in alto, toccando l’estremità opposta, per poi scendere vertiginosamente con la stessa forza con la quale è salita, così noi, in quella fase di discesa, ci facciamo male mentre tocchiamo a destra e a sinistra prima di ritornare nel punto iniziale. Stiamo sperimentando la paura dell’ospite invisibile, l’angoscia di vederci relegati nelle nostre case ad aspettare, insopportabile perfino a Godot.
Sentiamo la malinconia di tempi migliori, di spensieratezza, di libertà, di stare con gli altri, di decidere come trascorrere le nostre giornate. Stiamo provando la mancanza degli affetti, sperimentando l’utilizzo massiccio della tecnologia, dalla quale dipendono la nostra serenità e operosità giornaliera. E ancora il lutto come fatto quotidiano, in un’epoca in cui la mortalità doveva essere un evento straordinario. E mentre ancora si aspetta il farmaco dell’eternità, che con tanta probabilità pensavamo di aver quasi raggiunto, stiamo qui a combattere per la sopravvivenza. Pur con la nostra intelligenza, siamo fragili e ci lasciamo sopraffare dal timore. Davanti a queste morti siamo impotenti, impossibilitati a frenare il corso della natura. E a cosa serve l’intelligenza se ci facciamo cogliere impreparati, alla stessa stregua di
un patogeno che ha bisogno di impiantarsi in un corpo per vivere? Un’intelligenza
che non si proietta nel futuro e non ne calcola i rischi e i fenomeni
che da esso possono nascere, non è di aiuto. L’intelligenza che crede di essere suprema, di non avere rivali, di vivere tra esseri inferiori, questa sì che è una bella superbia. E il danno della superbia è che, nella sua convinzione di essere invincibile, non lascia vedere e prevedere le cose. Le azioni spese per il nostro progresso, ci hanno inviato il conto. Lo paghiamo con la stessa nostra vita, segno di un’intelligenza che, per quanto si atteggi, non riconosce i rischi cui andiamo incontro. Siamo accecati dal competere con i nostri simili e, mentre ci preoccupiamo di combatterli, siamo sopraffatti dai patogeni. La vita è un sistema simbiotico e se spostiamo alcune sue parti, altre reagiscono. La guerra tra simili non ha più senso davanti a un pericolo maggiore. Si combatte non più con l’avveniristico e spietato corredo bellico ma con le provette in laboratorio, sganciando virus che ci scoppiano dentro e fanno più stragi dei bombardamenti e riescono, in tempo reale, a stravolgere le economie, scuotere le Borse, creare povertà, isolare popolazioni con tutti i risvolti che ne derivano. La paura scava un vuoto dentro, irrigidisce e priva della forza di pensare al domani. Negli Adagia, una raccolta di proverbi tratti dalla cultura classica, del 1508, Erasmo da Rotterdam afferma che la guerra è bella per chi non l’ha provata e ci viene incontro con la storia dell’aquila e dello scarabeo, una favola greca, per avvalorare la tesi che Dio si serve delle cose deboli per confondere i potenti. Qui lo scarabeo chiese all’aquila di risparmiare un coniglio che era andato nel suo nido. In risposta l’aquila mangiò il coniglio. Allora lo scarabeo andò nei nidi delle aquile buttando via le uova. A questo punto intervenne Zeus con un armistizio tra i due. Erasmo propende per la pazienza dello scarabeo, ammira l’insetto che esce dallo sterco più del rapace. Eppure l’aquila, spietata e feroce, appare sugli scudi dei governanti che sono altrettanto spietati. L’invisibile virus, oggi, sconvolge il mondo mettendolo a soqquadro nella sua bella civiltà acquisita, un abito che comincia a invecchiare. Se qui lo scarabeo riesce a svuotare il mondo delle sue certezze, non ci resta che un armistizio di convivenza tra il rapace e lo sporco ma lucido scarabeo.
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