Alberto Sordi nell'Avaro di Molière |
Vico Equense - Nel canto XX del Purgatorio, Dante maledice la lupa, simbolo dell’avarizia, e chiede che scompaia dalla terra. I peccatori sono esposti sull’orlo del monte verso il vuoto e piangono espiando il peccato. Qui bellissima la metafora dell’avarizia vista come la spugna che mai finisce di trattenere acqua: “non sazia la spugna”. E di questo canto che mi sono ricordata al funerale di un uomo che in vita era visto come un grande avaro. “Era un taccagno, spilorcio, guai ad averci a che fare” solo qualche frase al seguito del suo feretro e tra i partecipanti si mormoravano parole non proprio benevole. Brutta cosa essere ricordati per un vizio, quando dopo la morte, di solito, si riconosce al defunto tutto quello che di buono ha fatto e si diventa di punto in bianco santi quasi per incanto. “Aveva il braccino corto, era uno spilorcio, taccagno, un avaro, ingeneroso…Solo alcuni dei sinonimi per descrivere un vizio, quello dell’avarizia. Dante pone gli avari e i prodighi insieme come se l’avarizia fosse la mancanza dell’altra. Di solito ci sono più avari che prodighi, ma ci sono anche tante sfaccettature degli stessi avari come dei prodighi. Un vizio che ha molte declinazioni e rappresenta una piaga da cui ne nascono tante altre. Il taccagno tende ad accumulare denaro e a non condividere ciò che ha con gli altri. Un caffè, un regalo, un piccolo piacere, un’offerta diventa per lo spilorcio una sicura omissione credendo di essere un grande parsimonioso e senza avere la reale visione di quello che è il suo vizio. Come evita di condividere così cerca di arraffare, prende tutto quello che gli viene dato ringraziando ma non ricambiando. Pur di sottrarsi a quelli che sono i suoi doveri in senso economico, si ritira di buon grado.
E così lo spilorcio non offrirà mai niente, né regalerà qualcosa o farà deliberatamente un’azione che comporti una spesa. Un atteggiamento che finisce per allontanare gli altri, evitando qualsiasi tipo di rapporto e facendogli terra bruciata intorno. L’effetto boomerang è proprio la solitudine, l’esclusione con conseguente depressione. Secondo l’enneagramma della personalità in ambito psicologico, l’avarizia è il vizio del pensatore, dell’investigatore che come virtù mostra la temperanza. Per vizio intendiamo un atteggiamento abitudinario, profondo e radicato che si manifesta con un agire ripetitivo e coattivo. La taccagneria porta con sé implicazioni psicologiche e relazionali. L’avaro è un tipo che ha un controllo su tutto e tutti, preciso ma anche sospettoso, con atteggiamenti ruffiani e maliziosi. E’ solitamente un insicuro e cerca conferme, all’occorrenza è un opportunista, ma anche decisionista e dominatore. Indipendentemente dalla propria economia, il taccagno elude ogni possibilità di spesa, sia che le sue casse siano piene sia che faccia la fame. Di conseguenza non teme brutte figure in merito, né di essere offensivo e non percepisce i bisogni degli altri ma è preso solo dai suoi. Il taccagno è stato un bambino privo di attenzioni affettuose e quindi ferito, che sopperisce alle “mancanze” con la sua mania per la “roba”, oggetti su cui trasferisce le sue insicurezze visto che non può contare sull’amore degli altri. Questo potrebbe essere anche un circolo vizioso che si instaura quando, manifestato il suo vizio, gli altri lo evitano per non volerlo accettare e a maggior ragione egli conferisce alle cose quello che dovrebbe rendere alle persone. L’avarizia può avere conseguenze disastrose portando chi ne soffre alla solitudine, all’ansia, alla depressione e al disadattamento. Il fatto che questa eccessiva preoccupazione per la “roba” possa essere alla base della sua infelicità, non è per niente presa in considerazione o avvertita come tale. Egli non percepisce a pieno la sua condizione e non ha consapevolezza di come lo vedano o giudichino gli altri. L’avaro non ammetterà mai di esserlo, né chiederà aiuto per non percepire la sua malattia, poichè di malattia si tratta. Si sente vittima e cerca di sfuggire agli altri. La letteratura ci dà esempi famosi di avari a cominciare da Plauto, l’autore di Sarsina con la sua Aulularia del 194 a.C. in cui dava spettacolo di quelle che erano gli atteggiamenti parossistici dell’avaro. Tema ripreso poi da Moliere nel suo Avaro, commedia in 5 atti del 1668. A differenza del personaggio plautino, Euclione, che è povero e il suo modo di agire è comprensibile, Arpagone, nell’Avaro, ha, invece, una solida posizione economica e l’autore ne sottolinea il vizio nella sua vera natura. In Moliere la commedia poggia sui sentimenti attraverso un’indagine dei moti dell’animo, tanto che i personaggi non sono ben definiti, né descritti fisicamente. All’autore interessa sondare nell’abisso dell’uomo. Qui Arpagone è vittima del suo vizio, come del resto accade ad ogni taccagno, quello di restare prigioniero del suo mondo chiuso per l’ attaccamento “alla roba”. Nella novella di Giovanni Verga, dal titolo appunto “La roba”, Mazzarò, il protagonista, viene descritto nella sua ascesa da povero contadino a possidente, condizione che raggiunge con tutti i mezzi a disposizione e che l’autore non biasima, ma lo accompagna nelle varie fasi quasi a voler sottolineare i modi sofferti per raggiungere lo stato di benessere. “Tutta quella roba se l’era fatta lui, colle sue mani e colla sua testa, col non dormire la notte, col prendere la febbre dal batticuore o dalla malaria, coll’affaticarsi dall’alba alla sera, e andare in giro, sotto il sole e sotto la pioggia, col logorare i suoi stivali e le sue mule — egli solo non si logorava pensando alla sua roba […] quando uno è fatto così, vuol dire che è fatto per la roba (Giovanni Verga) Di solito la ricchezza rende anche ciechi e a tutto il sacrificio e il lavoro profuso per raggiungere il conseguimento della “roba”, segue poi un inaridimento sentimentale e un vuoto che certamente nessun pezzo di terreno, né di averi gli potrà mai colmare.
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