di Filomena Baratto Stamattina la prima immagine che mi è apparsa al risveglio, forse reduce da qualche sogno, è stata quella di mio nonno alle prese con la barba. Tanto è bastato a farmi rievocare momenti di quando ero bambina. Mio nonno aveva i baffi, folti e ispidi: quando si avvicinava per darmi un bacetto, mi pungeva. Non ci si accorgeva subito che si apprestava a sbarbarsi. Era molto silenzioso, con passo felpato, movimenti lenti, sornione. Dando una rapida occhiata al suo volto riflesso nello specchio, esaminava il da farsi. Faceva rientrare il collo della camicia, a volte restava anche in canottiera, e cominciava con gesti lenti e precisi. Prendeva il pennello, scrutava lo stato delle setole e lo sciacquava. In queste prime fasi si accigliava sempre. Non si sa se per la lunga seduta di barba che lo attendeva o per le condizioni del pennello. Lo immergeva, poi nel contenitore col sapone e stemperava la schiuma sul viso con movimenti circolari e brevi, salvaguardando i baffi. Se soddisfatto, cominciava a fischiettare come un merlo. Subito dopo lavava il pennello, lo appoggiava sul lavello e passava alla seconda fase. Estraeva da un fodero un rasoio professionale, neanche stesse sguainando la spada di D’Artagnan, lo puliva con uno straccetto che gli pendeva dalla tasca simile alla cintura di Zorro, lo affilava su un pezzo di cuoio lungo che fissava al muro mentre l’altra mano lo reggeva, e con movimenti sistematici lo affilava. La nonna si lamentava, a quel punto, per il fruscio prodotto dallo strofinio simile al sibilo del serpente. Incurante, il nonno continuava. Finalmente, partiva la rasatura.
Il richiamo del merlo taceva per una maggiore attenzione a non tagliarsi. Limava e contro limava lasciando qua e là qualche residuo come soffice neve negli angoli della strada rimasta all’ombra. Tolta ogni traccia di schiuma, sciacquava bene il rasoio e poneva mano all’ultima passata. Solo a viso liscio, si accorgeva di me seduta da qualche parte, e mi diceva: “Eh?”
In ultimo si dava uno spruzzo di colonia. A operazione conclusa riprendeva in mano il pennello e mi decantava le setole, lamentandosi poi di non trovare più in commercio un pennello simile. Mentre lo ascoltavo, ero attratta dalla levigatezza del suo viso che per magia appariva ringiovanito. A volte il nonno mi sbirciava dallo specchio quando aspettava da me qualche risposta, poi commentava con la nonna con allegre battute, io mi divertivo ad ascoltarli. In casa, dopo, era un misto di aroma di caffè e colonia, a volte anche anice, un cocktail di profumi inebrianti che ancora oggi mi rimandano a quelle scene. Riti cui non si assiste più.
I ricordi di queste scene mi sono ritornati anche leggendo l’Ulisse di Joyce. Nelle prime tre pagine abbiamo la descrizione della rasatura di Buck Mulligan diluita nel dialogo. Cercando di contrarla al massimo, sarebbe pressappoco questa: Solenne e paffuto, Buck Mulligan comparve dall'alto delle scale, portando un bacile di schiuma su cui erano posati in croce uno specchio e un rasoio. Mise giù il pennello e, ridendo di gusto, urlò: Verrà lo sparuto gesuita? Buck Mulligan mostrò una gota rasata al di sopra della spalla destra. Si faceva una cauta passata sul mento. Guardò accigliato la spuma sulla lama del rasoio. S’interruppe e si rifece una leggera insaponata sulI’altra guancia. Nettò di nuovo la lama del rasoio. Si radeva pulito e meticoloso, in silenzio. Attaccò l’incavo sotto il labbro inferiore. Chiuse diligentemente il rasoio e con carezzosi polpastrelli si palpeggiò la pelle liscia. Le labbra sbarbate e increspate risero, e così pure i bordi dei denti bianchi, scintillanti. Anche nel mio romanzo Just Job, il nonno mi ha prestato la sua scena di rasatura per il pescatore Lucio. “Ragazzo mio”, dice il pescatore rivolto al ragazzo, “quando mi rado, devo toccare prima la pelle su cui vado a passare, con i polpastrelli devo prendere possesso dei centimetri e sentire sottomano il viso. Conosco le rughe che ci sono, la linea del volto, la pelle che cambia. E’ un modo, ogni mattina, per prendere possesso di me stesso. Dalla levigatezza della pelle, capisco tante cose: se la mia mano è stata ferma nel tracciare il percorso della lametta, se un pensiero mi mette ansia, notando sul viso delle discontinuità”. Oggi, sbirciando gli uomini di casa mia, quando si radono col rasoio elettrico, passeggiano per le stanze, rispondono a telefono, bevono il caffè. Allora penso a mio nonno, un signor Cupiello, lento, in canottiera, rigorosamente bianca a righe, nella posizione di una guardia accigliata che con calma si radeva mostrando in quella mezz’ora tutto il suo carattere. I moderni rasoi sfidano anche le barbe più ispide, sono veloci ma non sempre levigano come una lama a mano. Questo tempo contratto non ci riporta la bellezza delle azioni quotidiane che, quando diventano sterili abitudini, non lasciano nemmeno il ricordo.
Nessun commento:
Posta un commento